Il Bilancio Partecipativo. Per realizzare la partecipazione diretta, superando le "consulte".
Etichette:
Enti locali e pubblica amministrazione
Cos’è un Bilancio Partecipativo?
Non esiste, probabilmente, un modo univoco per descrivere il Bilancio Partecipativo. Anche perché non esistono modelli replicabili, ma solo famiglie diverse di sperimentazioni. La stessa denominazione non è un fattore indispensabile: possono, infatti, essere presenti i principi strutturanti che accomunano tra loro le centinaia di esperienze internazionali di Bilancio Partecipativo senza che il nome sia necessariamente utilizzato.
Anzi, in molti paesi nell’Occidente settentrionale, l’utilizzo del nome è mal recepito, e viene usato per confinare le sperimentazioni in un ambito ‘esotico’, negando così validità ai principi universali che ne sostanziano le forme storicamente assunte, spesso molto diverse tra loro nei differentii contesti geografici e sociali.
Forse, per cercare di dare una connotazione unitaria alle diverse esperienze oggi messe in opera alle più varie latitudini (dal Brasile alla Nuova Zelanda, dal Camerun all’India fino alle recenti sperimentazioni europee, ecc.) è possibile ricorrere a due definizioni: una che si configura come massimo comun denominatore e una come minimo comune multiplo.
1)Il primo cerca solo di identificare i tratti che accomunano le tante esperienze diverse. E potrebbe essere così definito: si può parlare di Bilancio Partecipativo quando su un territorio viene praticato un percorso di dialogo sociale che tocca il ‘cuore’ economico/finanziario dell’amministrazione, puntando a costruire forti legami ‘verticali’ tra istituzioni ed abitanti, e contemporaneamente solidi legami ‘orizzontali’ tra i cittadini e le loro organizzazioni sociali.
2)Il minimo comune multiplo, paradossalmente, è più facile da definire proprio in quanto è una misura ‘inclusiva’. Esso, infatti, prende in esame tutti gli elementi virtuosi dedotti dall’eterogeneità delle esperienze esistenti e le associa. Traccia così una sorta di ‘orizzonte futuro’ che potrebbe accomunare i tanti percorsi diversi, qualora in ognuno di essi si arrivasse a superare i suoi limiti di contesto e bilanciare l’attenzione per le riforme di natura politico-sociale con le trasformazioni tecniche dell’apparato burocratico e delle procedure amministrative.
In tale ottica si potrebbe dire che un Bilancio Partecipativo è strumento privilegiato per favorire una reale apertura della macchina istituzionale alla partecipazione diretta ed effettiva della popolazione nell’assunzione di decisioni sugli obiettivi e la distribuzione degli investimenti pubblici, superando le tradizionali forme solo ‘consultive’ e creando un ponte tra la democrazia diretta e quella rappresentativa.
È quindi un ‘luogo’ dove si deve poter ricostruire nel tempo e in maniera collettiva il concetto di ‘bene comune’ (o meglio: di ‘beni comuni’), trasformando le tensioni sociali in ‘progetto condiviso’ all’interno di spazi autogestiti dalla società civile, ma marcati da una forte interazione dialogica con le istituzioni.
Non esiste, probabilmente, un modo univoco per descrivere il Bilancio Partecipativo. Anche perché non esistono modelli replicabili, ma solo famiglie diverse di sperimentazioni. La stessa denominazione non è un fattore indispensabile: possono, infatti, essere presenti i principi strutturanti che accomunano tra loro le centinaia di esperienze internazionali di Bilancio Partecipativo senza che il nome sia necessariamente utilizzato.
Anzi, in molti paesi nell’Occidente settentrionale, l’utilizzo del nome è mal recepito, e viene usato per confinare le sperimentazioni in un ambito ‘esotico’, negando così validità ai principi universali che ne sostanziano le forme storicamente assunte, spesso molto diverse tra loro nei differentii contesti geografici e sociali.
Forse, per cercare di dare una connotazione unitaria alle diverse esperienze oggi messe in opera alle più varie latitudini (dal Brasile alla Nuova Zelanda, dal Camerun all’India fino alle recenti sperimentazioni europee, ecc.) è possibile ricorrere a due definizioni: una che si configura come massimo comun denominatore e una come minimo comune multiplo.
1)Il primo cerca solo di identificare i tratti che accomunano le tante esperienze diverse. E potrebbe essere così definito: si può parlare di Bilancio Partecipativo quando su un territorio viene praticato un percorso di dialogo sociale che tocca il ‘cuore’ economico/finanziario dell’amministrazione, puntando a costruire forti legami ‘verticali’ tra istituzioni ed abitanti, e contemporaneamente solidi legami ‘orizzontali’ tra i cittadini e le loro organizzazioni sociali.
2)Il minimo comune multiplo, paradossalmente, è più facile da definire proprio in quanto è una misura ‘inclusiva’. Esso, infatti, prende in esame tutti gli elementi virtuosi dedotti dall’eterogeneità delle esperienze esistenti e le associa. Traccia così una sorta di ‘orizzonte futuro’ che potrebbe accomunare i tanti percorsi diversi, qualora in ognuno di essi si arrivasse a superare i suoi limiti di contesto e bilanciare l’attenzione per le riforme di natura politico-sociale con le trasformazioni tecniche dell’apparato burocratico e delle procedure amministrative.
In tale ottica si potrebbe dire che un Bilancio Partecipativo è strumento privilegiato per favorire una reale apertura della macchina istituzionale alla partecipazione diretta ed effettiva della popolazione nell’assunzione di decisioni sugli obiettivi e la distribuzione degli investimenti pubblici, superando le tradizionali forme solo ‘consultive’ e creando un ponte tra la democrazia diretta e quella rappresentativa.
È quindi un ‘luogo’ dove si deve poter ricostruire nel tempo e in maniera collettiva il concetto di ‘bene comune’ (o meglio: di ‘beni comuni’), trasformando le tensioni sociali in ‘progetto condiviso’ all’interno di spazi autogestiti dalla società civile, ma marcati da una forte interazione dialogica con le istituzioni.
Nessun commento:
Posta un commento