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domenica 1 febbraio 2009

Aree agricole strategiche, o strategie politiche?

Riportiamo uno stralcio dell'articolo "Aree agricole strategiche, o strategie politiche?", tratto dal numero di gennaio 2009 di ConTatto, periodico a cura dell'Associazione "Partecipazione Civica Corte Franca". Premesso che l'articolo prende spunto dalla vicenda "Cantinone", il contenuto è particolarmente interessante, oltre che efficacemente esposto, perchè i concetti trattati hanno comunque valore di carattere generale.



1) Ma il cantinone dove lo metto?
Nel consiglio del 27 novembre ’08 si è deliberato ufficialmente sulla individuazione degli ambiti agricoli strategici per tutto il territorio comunale, secondo criteri ben precisi. È stato gioco forza per l’Amministrazione non poter passare sotto silenzio la questione della collocazione della struttura industriale richiesta dalla SpA Ber lucchi: difatti
presso Borgonato, l’A.C ha ritagliato, nel bel mezzo di zone agricole di pregio, un’area di possibile trasformazione, per non escludere la possibilità di collocarvi tale attività produttiva! Tutto ciò nonostante la Provincia abbia espresso parere contrario.

2) Perché la lettera alla Provincia?
La nostra Associazione ha inviato alla Provincia di Brescia un esposto in cui si chiede se l’A.C. di Corte Franca, “giustificando” la propria decisione con una motivazione che pare anteporre interessi privati a quelli della collettività, non abbia operato in difformità ai criteri oggettivi prescritti dalla Giunta Regionale.

3) Tante costruzioni in aree agricole di pregio, com’è possibile?
Una norma della Regione Lombardia consente ai coltivatori di realizzare nelle proprie aree agricole gli edifici e le strutture per la conduzione dei fondi, con un indice edificatorio basso, in ragione del fatto che i terreni agricoli hanno elevate estensioni. Quindi la motivazione che spinge il legislatore ad introdurre questa procedura è quella di permettere ai coltivatori di costruire sui propri terreni per consentire una crescita "fisiologica" dell'azienda.

4) Fino a che punto l'edificazione risulta "fisiologica" per l'azienda?
Fino a quando non viene saturata la possibilità edificatoria in rapporto all’estensione dei terreni di cui il coltivatore è proprietario. Quindi se un coltivatore non ha ancora saturato le sue possibilità edificatorie(ed ha ancora bisogno di strutture in rapporto alla conduzione dei fondi) può fabbricare richiedendo semplicemente un permesso di costruire, procedura
"dovuta" che passa solo dalla commissione edilizia e dall'ufficio tecnico i quali verificano le rispondenze tecniche e la conformità al Piano Regolatore.

5) Come si trasforma il terreno in questo caso?
I terreni sui quali sorgono gli edifici sono agricoli e, una volta ammessa l'edificazione, restano agricoli. Non avviene un mutamento di destinazione d'uso del suolo, cioè il suo uso giuridico resta invariato.

6) E nel caso del cantinone?
In questo caso l'azienda ha già saturato la sua capacità edificatoria. Ciò significa che la struttura ipotizzata esce dalla logica di necessità "fisiologica" che è nello spirito della norma di cui sopra al punto 3). Se l'azienda volesse costruire sui propri terreni agricoli dovrebbe quindi acquistare altri terreni da coltivare e quindi crescere.

7) Quindi si deve ricorrere ad un’altra procedura?
Sì, non potendo seguire la procedura per l'edificazione in aree agricole, si ricorre a quella dello Sportello Unico per le attività Produttive (SUAP). Tale strumento prevede l'edificazione e la contestuale variante urbanistica sui terreni edificati che è condizione necessaria per permettere l'edificazione ulteriore sui fondi di proprietà del coltivatore i quali non lo permetterebbero se restassero agricoli.

6) Non e’ la stessa cosa?
No, con la procedura del SUAP il terreno passa da agricolo a produttivo, cioè
cambia il suo stato giuridico in modo irreversibile.

7) Cosa significa?
L'autorizzare l'intervento significa, in termini urbanistici, aprire un nuovo fronte insediativo produttivo in un'area le cui caratteristiche sono anche di pregio paesaggistico, compromettendole in modo irreversibile.

8) Qual e’ il rischio?
E' noto a tutti che i disastri ambientali e paesaggistici peggiori sono realizzati con la politica dei "piccoli passi". Nel futuro potranno essere aggiunti continui lotti a destinazione produttiva limitrofi (tanto l'ambito è già compromesso...) ed il gioco è fatto: abbiamo l'ennesimo polo produttivo
servito da una infrastruttura di collegamento territoriale (la povera Provinciale). Questa potrebbe non essere una preoccupazione della attuale amministrazione. Di certo è una preoccupazione che presuppone una visione lungimirante ed è una conseguenza che tutti i cittadini pagheranno.

9) Bisogna proprio dire sì?
La procedura del SUAP, proprio perchè non è "dovuta" e presuppone la realizzazione di strutture in più rispetto a quelle concesse, prevede un passaggio politico e non solo tecnico.Ecco perchè la richiesta di intervento non si ferma all'ufficio tecnico ma passa per il Consiglio Comunale che decide se consentire o no la realizzazione dell'intervento.

10) Quindi?
Quindi la realizzazione della struttura con lo strumento dello Sportello Unico dipende unicamente da una scelta politica amministrativa. Essa comunque risulta incoerente con le linee strategiche locali e sovralocali (provinciali) per il nostro territorio.

11) Lo sportello Unico e’ quindi solo uno strumento?
Sì, uno strumento per realizzare una precisa volontà politica. Funziona proprio come con uno strumento musicale: si può suonare bene o suonare male, si può anche decidere di non suonare, soprattutto sapendo di produrre solo stonature! L’amministrazione non è obbligata ad accettare la proposta perchè non esistono "gabbie" procedurali o burocratiche.


12) PGT o SUAP?
Siamo, in ogni caso, alla vigilia del PGT. Sarebbe forse più opportuno inserire l'intervento in una logica sistemica proponendo alternative di localizzazione più idonee (ad esempio in prossimità di un polo produttivo esistente), magari da valutare all'interno della Valutazione Ambientale Strategica: un’occasione imperdibile per evitare ulteriori disastri paesaggistico-ambientali.


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lunedì 12 maggio 2008

Tra abusivismo e speculazione, lottizzazioni più che urbanistica

Articolo pubblicato sul "Il Sole 24Ore" di domenica 4 maggio 2008. L'inchiesta di "Report". Cosa potremmo imparare da Madrid e Parigi.



Ma perchè a Roma l'urbanistica "contrattata" non si fa come a Parigi o Madrid? Se lo chiede "Report", il programma d'inchiesta giornalistica di Milena Gabanelli, che dedica il servizio d'apertura di questa sera in onda su Rai Tre al Piano Regolatore di Roma.

Il servizio - firmato da Paolo Mondani e che "Il Sole" ha visionato in anteprima - offre un ritratto urticante di alcune recenti lottizzazioni edilizie nei quartieri Bufalotta e Tor Pagnotta mostrando le aree verdi sparire sotto l'avanzata di residenze fotocopia. Non mancano i nomi eccellenti dell'imprenditoria romana delle costruzioni, da Francesco Gaetano Caltagirone a Sergio Scarpellini, ai fratelli Pierluigi e Claudio Toti.

La telecamera cattura anche il lampo nell'occhio dell'immobiliarista che conta le migliaia di appartamenti che costruirà (Scarpellini) e il ringraziamento "alla politica italiana" di un costruttore per un'autorizzazione provvidenziale (Pulcini).

Ma in realtà "Report" punta il dito contro l'Amministrazione capitolina, cioè le ultime Giunte di Rutelli e Veltroni. L'accusa è di non aver saputo governare l'urbanistica, cedendo a compromessi svantaggiosi per la città: al posto di alloggi pubblici, vengono mostrati massicci piani di residenze private con prezzi lunari e in mezzo a strade non finite.

E nel conto c'è anche l'insufficiente contrasto dell'abusivismo edilizio, che non ha risparmiato aree plurivincolate come il parco dell'Appia antica. "A Roma l'abusivismo fiorisce rigoglioso come la foresta troplicale e serve il machete per combatterlo", dice a "Report" uno sfiduciato Roberto Morassut, ancora nella carica di assessore all'Urbanistica della Giunta Veltroni (ora è deputato del PD).

Da qui il confronto con l'estero. La telecamera ci porta a spasso per Parigi, accompagnati da orgogliosi amministratori cittadini che puntano il dito sulle più recenti conurbazioni residenziali: gradevoli geometrie, balconcini e tanto vetro. E poi la domanda: "Qui - dice l'urbanista francese Pierre Micheloni - ci sono case pubbliche e residenze vendute sul mercato libero: riesce a distinguerle?". La risposta della telecamera è ovviamente negativa.

L'intervento, come spiega il tecnico francese, è stato realizzato su un'area pubblica, consentendo un maggior potere contrattuale alla città. Non solo: prima sono state fatte le strade e dopo le case, non il contrario. Infine, niente centri commerciali, per non danneggiare i piccoli negozi.

A Madrid i nuovi quartieri di edilizia residenziale non sono forse meno intensivi di quelli delle periferie romane. Ma almeno la città ha imposto una qualità architettonica che attenua l'impatto ambientale.




giovedì 24 gennaio 2008

I cittadini per il futuro dell'urbanistica

Stralcio di un articolo di Fabio Alfano sulla realtà urbanistica di Palermo, pubblicato su Repubblica il 17 gennaio 2008. A nostro avviso alcuni passaggio sono particolarmente interessanti.



[...] Si assiste attoniti alla pubblicazione, silenziosa e solo per circa venti giorni, del bando per i consulenti del nuovo piano particolareggiato del delicatissimo centro storico, alla divulgazione dei loro nomi prima del suo espletamento, alla clamorosa assenza, tra essi, di almeno un architetto progettista, al disaccordo su tutto ciò da parte del sindaco non in nome di una maggiore qualità ma per altre idee, mai rese note ai suoi cittadini e neanche, sembra, ai suoi assessori. E si potrebbero fare altri esempi. In tutti c´è una chiara indicazione: in atto non c´è alcuna pianificazione, intesa, coordinamento, convergenza di intenti per la gestione e lo sviluppo della città; ci sono invece autoreferenzialità, velleità che non si sposano affatto con l´interesse collettivo. E così Palermo non si trasforma, ma si disgrega sempre più, giorno dopo giorno. Cosa stiamo ad aspettare, allora? Un po´ di pragmatismo ci suggerisce che alla critica, utile se non fine a se stessa, dovremmo far seguire, una azione propositiva. «Ognuno di noi», fu saggiamente detto, «faccia la sua parte», e in questo momento, aggiungerei, anche quella degli altri.

E da fare ce n´è moltissimo, cominciando col ristabilire un principio che sembra essere non più scontato: gli amministratori dei beni e delle risorse comuni sono coloro che hanno l´onere e l´onore (e vengono pagati per questo) di essere a servizio delle esigenze di una comunità. È ormai prassi diffusa che il più delle volte invece si servano, anche in buona fede o inconsapevolmente, di ciò che dovrebbero servire. E questo ovviamente non funziona. Servire veramente una città significa monitorare con fatica e cercare di dare risposte adatte alle esigenze delle diverse categorie di cittadini presenti e dei loro spazi. Altrimenti è una grande illusione. Ma nessuno oggi, per la gravità della situazione, può più tollerare risposte aleatorie, pertanto o si risolvono veramente i problemi o non si può che andare a casa. Non è possibile fare sconti a nessuno, questo dovrebbe essere chiaro a chiunque, al di là del colore, schieramento o altra appartenenza.

Bisogna essere però numerosi, compatti e responsabili. E in una città di circa 700.000 abitanti non è possibile credere che non ce ne siano abbastanza che, superando paure e pessimismo, possano avviare un processo di trasformazione della coscienza collettiva, sia per quanto riguarda gli amministratori che gli amministrati. Ce ne sono, eccome, però disgregati. Coordiniamoci, allora, per esercitare una pressione decisa e costante affinché l´amministrazione non si sottragga ad un suo preciso dovere: attivare una pubblica raccolta di esigenze, problemi e questioni e poi di idee, soluzioni, progetti, a vari livelli, per definire un efficace piano generale di interventi, con relative priorità. Che questo avvenga, attraverso la costituzione di un ufficio pubblico, che si incarichi di organizzare i vari materiali in mappe, disegni, plastici, fotomontaggi, video, relazioni, ecc., affinché chiunque possa rendersi conto e intervenire criticamente. Solo una programmazione che abbia chiaro dove vuole arrivare e come arrivarci può dare senso, misura ed efficacia a qualsiasi azioni si compia quale, per esempio, la revisione, o la creazione ex novo, dei necessari strumenti attuativi, come i piani regolatori, particolareggiati o altro.

Ognuno può contribuire a questo. L´Università, per esempio, invii pubblicamente all´amministrazione (o la inviti formalmente ad andarli a visionare) l´enorme quantità di studi e progetti prodotti negli ultimi decenni, che hanno cercato soluzioni, quasi mai utilizzate, per ogni angolo di Palermo. Spinga con tutti i mezzi e l´autorevolezza che le compete, affinché siano presi in considerazione almeno come premessa per progetti più specifici o attuali. I professionisti di buona volontà (tanti), individualmente o mediati dai loro ordini (potenzialmente i principali promotori delle preziose professionalità rappresentate) facciano circolare pubblicamente le loro idee al di là del fatto che ottengano incarichi o compensi.

Le associazioni cittadine, antiche e recenti, segnalino ancor di più le questioni primarie urbane, come è avvenuto per la chiusura contemporanea dei due principali musei cittadini. Tutte le istituzioni culturali, grandi e piccole, promuovano iniziative che possano fare intravedere ai palermitani la qualità culturale con cui può essere condotta questa trasformazione. La gente evidenzi, con telefonate, e-mail, lettere, proteste, denunce, comitati (quale quello dei residenti di viale Campania) ciò di cui necessita e di cui ha pieno diritto anche perché ben pagato in termini di tasse.

domenica 9 dicembre 2007

Il Comune può limitare le facoltà di edificazione previste dalla Regione

Di seguito riportiamo l'articolo di Vittorio Italia - pubblicato a pagina 51 de "Il Sole-24 Ore" del 19 novembre 2007 - dal titolo "Ok al Comune più severo della Regione"




E' legittimo il piano urbanistico comunale che stabilisce, per l'edificazione, dei limiti più rigorosi di quelli previsti nel Piano Territoriale di Coordinamento Paesistico della Regione. Così ha deciso il Consiglio di Stato, sezione IV, 1 ottobre 2007, n° 5058, che ha precisato i complessi rapporti tra i piani comunali e quelli regionali.

Il caso riguardava un piano urbanistico comunale che aveva stabilito, per determinati terreni, un'edificabilità più ridotta rispetto a quanto previsto nel sovrastante Piano Regionale. I proprietari di questi terreni hanno fatto ricorso contro il Piano Comunale, sostenendo che la pianificazione comunale non poteva introdurre delle modificazioni rispetto alle puntuali previsioni urbanistiche contenute nel Piano Regionale.


Il Consiglio di Stato ha però respinto la tesi dei ricorrenti, con i seguenti argomenti:

1)il precedente sistema pianificatorio urbanistico, ordinato in forma gerarchica "a cascata", è in contrasto con il principio costituzionale dell'autonomia degli enti territoriali (articolo 118) e con il riparto delle competenze in materia urbanistica. Il Comune quindi non può essere confinato in una posizione di mera attuazione di scelte precostituite in sede regionale;

2)il Piano Territoriale Paesistico Regionale (articoli 143 e seguenti del Codice dei beni culturali) tutela i valori paesaggistici, ma non è una direttiva con un unico oggetto. Esso pone un limite minimo alla discrezionalità programmatoria del Comune e, quest'ultimo non può ampliare la facoltà di edificazione, ma può stabilire limiti più rigorosi all'edificazione.


La sentenza è esatta e chiarisce la posizione del Comune, che è oggi illegittimamente sacrificata rispetto a quanto previsto nella Costituzione. Infatti, l'articolo 114 della Costituzione pone il Comune come primo tra gli enti territoriali che costituiscono la Repubblica, e gli riconosce un'autonomia di "propri statuti, poteri e funzioni". Attualmente i piani comunali - sia quelli urbanistici, sia quelli relativi ad altre materie - sono quasi sempre asserviti ai piani regionali. Ma l'autonomia dell'ente locale si manifesta anche attraverso i poteri pianificatori, ed i piani deliberati dai Comuni devono avere un loro spazio. [...]


______________________


Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la seguente DECISIONE sul ricorso in appello n. 521.2006 [...] per l'annullamento della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria 8.7.2005 n. 1066; [...]


FATTO

Gli appellanti sono proprietari di terreni [...] i quali – secondo la disciplina urbanistica previgente – ricadevano in zona residenziale semintensiva SI 1 e SI 2, con relativa potenzialità edificatoria. Con deliberazione consiliare n. 42 del 2000 il comune di Lerici adottò il progetto preliminare del nuovo Piano Urbanistico Comunale – P.U.C. , nel quale le aree in questione risultavano invece classificate in parte in ambito R5.1 con regime normativo di consolidamento ( ID-CO) e in parte in ambito di gestione ambientale PA 4.

In pratica, per i terreni sottoposti a regime di consolidamento risultava vietata ogni edificazione, salvo modestissima volumetria attribuita ad uno dei terreni.Con deliberazione consiliare n. 36 del 2002 è stato poi approvato il progetto definitivo del P.U.C, che è infine divenuto operativo all’esito del positivo vaglio operato dall’Amministrazione provinciale di La Spezia.

Il Piano è stato impugnato avanti al T.A.R. Liguria dagli interessati, i quali ne hanno chiesto l’annullamento deducendo in particolare il contrasto della nuova disciplina urbanistica comunale rispetto alle vincolanti indicazioni desumibili dal sovraordinato Piano Territoriale di Coordinamento Paesaggistico – P.T.C.P della regione Liguria.

Si sono costituiti in quel giudizio il comune di Lerici e la provincia di La Spezia, instando per l’inammissibilità e l’infondatezza del gravame. Con la sentenza in epigrafe indicata il Tribunale, dopo aver disatteso le eccezioni in rito, ha respinto nel merito il ricorso, compensando peraltro le spese di lite tra le parti. La sentenza è impugnata con l’atto d’appello all’esame dai soccombenti i quali ne chiedono l’integrale riforma con annullamento dei provvedimenti gravati, deducendo quattro motivi di impugnazione e riproponendo la domanda di risarcimento dei danni patiti già infruttuosamente versata in primo grado. [...]



DIRITTO

L’appello non è fondato e la sentenza impugnata va pertanto integralmente confermata. In primo luogo non condivisibile nella sua assolutezza è la tesi – che costituisce il nucleo portante dell’impugnativa – secondo la quale la pianificazione comunale non può introdurre modificazioni rispetto alle previsioni urbanistiche di natura puntuale contenute nello strumento regionale di coordinamento.

Al riguardo si osserva innanzi tutto che la risalente nozione del sistema pianificatorio urbanistico come ordinato “a cascata” e cioè in forma sostanzialmente gerarchica si pone in contrasto con il principio costituzionale dell’autonomia degli enti territoriali (art. 118 Cost.) nonchè con il criterio generale di riparto delle competenze in materia urbanistica delineato dalla normativa statale.

In un contesto ordinamentale in cui il principio di sussidiarietà da un lato e la spettanza al comune di tutte le funzioni amministrative che riguardano il territorio comunale dall’altro orientano i vari livelli di pianificazione urbanistica secondo il criterio della competenza, il ruolo del comune non può infatti essere confinato nell’ambito della mera attuazione di scelte precostituite in sede sovraordinata. Ciò comporta che il comune, se non può disattendere le prescrizioni di coordinamento dettate dagli enti (Regione o Provincia) titolari del relativo potere, può però discrezionalmente concretizzarne i contenuti. Indagando, sulla base dei criteri orientativi ora sinteticamente richiamati, la natura dei rapporti che intercorrono tra il piano urbanistico comunale e il piano territoriale di coordinamento, si ricorda che originariamente tale strumento (previsto in forma non obbligatoria dall’art. 5 della legge urbanistica n. 1150 del 1942) aveva lo scopo di orientare l’attività urbanistica da svolgere in determinate parti del territorio nazionale, stabilendo in sede ministeriale le direttive principali che sarebbero state poi specificate a livello comunale.

Una volta transitata alle Regioni la relativa competenza il Piano di coordinamento ha assunto funzioni ulteriori affidategli dalla legislazione regionale, potendo anche contenere prescrizioni immediatamente efficaci nei confronti dei privati. Successivamente, con l’art. 1 bis della legge n. 431 del 1985 (cfr. ora artt. 143 e segg. del Codice dei beni culturali) al Piano territoriale è stata affidata anche la salvaguardia dei valori paesaggistici e ambientali. Il Piano territoriale, che originariamente aveva natura sostanziale di direttiva ad oggetto determinato, è venuto dunque ad assumere una configurazione complessa, coniugando l’originaria funzione di coordinamento delle pianificazioni urbanistiche locali con quella volta all’individuazione del punto di compatibilità tra la trasformazione del territorio regionale e la conservazione dei valori ambientali. Sotto il profilo da ultimo richiamato le disposizioni del Piano territoriale pongono un limite minimo o, per così dire, negativo alla discrezionalità programmatoria del comune, il quale non può attenuare la tutela ambientale ampliando le facoltà di edificazione. Per contro, e cioè in positivo, è invece acquisito nella giurisprudenza della Sezione che la previsione del piano comunale può legittimamente dislocarsi, rispetto al piano regionale, in termini concretamente più rigorosi in relazione a tali finalità ambientali. Di per sè, quindi, l’adozione da parte del comune di scelte urbanistiche più restrittive – e cioè in pratica l’assegnazione ad una area di una potenzialità edificatoria minore rispetto a quella consentita dal P.T.C.P. – non configura quei vizi di legittimità che gli appellanti deducono in via principale. [...]



P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, defintivamente pronunciando, respinge l’appello in epigrafe. [...] Così deciso in Roma, addì 12 giugno 2007, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Quarta – riunito in Camera di consiglio con l’intervento dei Signori:Paolo SALVATORE Presidente Pier Luigi LODI Consigliere Antonino ANASTASI estensore Consigliere Vito POLI Consigliere Carlo DEODATO Consigliere Depositata in Segreteria Il 01.10.2007 (Art. 55, L. 27.4.1982, n. 186)



sabato 1 dicembre 2007

Sottotetti e "furbetti del quartierino": seconda puntata

Di seguito riportiamo il testo di una lettera inviata al Direttore del Giornale di Brescia, pubblicata mercoledì 28 novembre 2007



Sottotetti: «Furbetti del quartierino» anche in Valcamonica

Ho letto con grande interesse la lettera pubblicata sul Giornale di Brescia di lunedì 19 novembre, con il titolo "Sottotetti e furbetti del quartierino" (vedi nostro post Sottotetti e furbetti del quartierino). La signora Monica denuncia la pratica, ormai consolidata da parte di imprese ed agenzie immobiliari nella zona sud della città, di «vendere i sottotetti non abitabili... in modo da utilizzarli liberamente come abitazione dopo il passaggio del tecnico comunale ed il rilascio dell’abitabilità in barba a regolamenti edilizi, norme urbanistiche e d’igiene».

La lettrice individua «la furbata» dei costruttori nell’edificare sottotetti non conformi allo standard abitativo, ma di venderli come abitabili, rassicurando il compratore «che nessuno si accorgerà mai di nulla, che evaderà l’Ici in quanto il sottotetto verrà accatastato come non abitabile» e che «per quest’ultimo dettaglio, in caso di vendita, sarà ancor più appetibile sul mercato....». Ella chiede che "qualche responsabile del settore dell’edilizia/urbanistica del Comune di Brescia", vista la massiccia diffusione di questa tecnica, "illustri agli acquirenti i rischi che corrono" abitando un sottotetto non abitabile».

La firmataria della missiva mi pare molto buona (volutamente?) perché sarebbe stato lecito anche chiedere che le «Autorità preposte» verifichino se un tale comportamento non implichi anche una serie di reati amministrativamente e/o penalmente perseguibili. Ciò che la lettera denuncia non avviene solo nella periferia sud di Brescia ma anche nell’alta Valcamonica, ove ho la residenza. E forse in modo più massiccio e sfrontato. Infatti in questi nuovi insediamenti, senza un briciolo di verde (che gli abitanti chiamano i «Nuovi castelli della valle») i sottotetti non abitabili (perché dotati di altezze medie di moltissimi centimetri al di sotto di quanto previsto dalle leggi in vigore) sono venduti ed abitati in assoluto dispregio delle leggi e dei Piani regolatori in vigore.

Il danno per i cittadini residenti non è di poco conto. Infatti il Comune non incassa gli oneri di costruzione previsti per la cubatura definita «sottotetto o solaio» ma venduto come abitabile. Non vengono realizzati i posti macchina previsti dagli standard di legge per i sottotetti, venduti come abitabili, per cui l’acquirente parcheggerà le auto di proprietà nei già insufficienti parcheggi comunali. Lo stesso acquirente non pagherà l’Ici. Parimenti non pagherà né lo smaltimento rifiuti né la depurazione delle acque vivendo in abitazione non accatastata come tale. Pagheranno anche la parte di questi incauti (o furbetti?) acquirenti i residenti del Comune in regola con gli standard abitativi. Tutto regolare? Non mi pare proprio.

La signora Monica si rivolge a «qualche responsabile del settore dell’edilizia/urbanistica del Comune di Brescia». Per l’Alta Valcamonica io mi rivolgo ai sindaci che, nei piccoli centri, sono spesso anche i «responsabili» per l’edilizia privata e, quando non lo fossero, hanno il dovere dell’alta vigilanza in materia e (non credo di sbagliare) di «Ufficiali di Polizia giudiziaria nell’esercizio delle loro funzioni». La signora Monica colloca quelli che definisce «i furbetti del quartierino» nella zona a sud della città di Brescia. Qualcuno di loro opera, di sicuro, anche in alta valle. (Lettera firmata)


mercoledì 28 novembre 2007

Il pubblico interesse giustifica la modifica dei provvedimenti urbanistici

Tratto da "L'esperto risponde", allegato al quotidiano "Il Sole-24 Ore" del 18 novembre 2007



Premesso che il quesito posto all'esperto del "Il Sole 24-Ore" è firmato da una cittadina di Passirano, riportiamo di seguito il testo della sua lettera.


"Io e mio cugino siamo proprietari di un terreno di 16.950 metri quadrati complessivi, diventato nel 2005 area edificabile. Siamo in possesso del progetto approvato dal Comune che prevede l'edificabilità di 8.000 mq cubi, di cui 1.600 per edilizia economico-popolare e altre direttive per quanto concerne la realizzazione di verde pubblico, parcheggi, e realizzazione di una rotatoria. Abbiamo provveduto alla rivalutazione del 4%, stiamo pagando regolarmente l'Ici e non abbiamo ancora provveduto alla vendita di tale area. Ad aprile è cambiata l'amministrazione comunale e quest'ultima ci dice di voler ridurre i metri cubi da edificare. Può la nuova giunta comunale cambiare un progetto approvato dall'amministrazione precedente?"


Ecco il testo della risposta del dr. Massimo Sanguini

"La pubblica amministrazione può sempre modificare i propri provvedimenti, non come conseguenza del cambio dell'esecutivo, ma nel perseguimento del pubblico interesse cui è vincolata la propria attività. Per far ciò, ovviamente, l'ente pubblico deve fornire adeguata motivazione, in particolare quando si impone un sacrificio al privato che aveva fatto legittimamente affidamento sulla determinazione dell'amministrazione, specie se concordata. In tal senso, si è pronunciata anche la giurisprudenza amministrativa, secondo cui le previsioni contenute in un piano di lottizzazione approvato dal Comune possone essere disattese da quest'ultimo attraverso provvedimenti di variante al PRG e a condizione che siano prospettate congrue ed esaustive motivazioni di interesse pubblico (Consiglio di Stato, sezione IV, 30.9.2002 n° 4980, e nello stesso senso TAR Abruzzo 5.3.2004, n° 212).

Ciò vale a maggior ragione nel caso di specie, non essendo neppure necessaria una variante al PRG, in quanto risulterebbe approvato solo il progetto di lottizzazione ma non il piano di lottizzazione. Ne consegue che, appunto, l'amministrazione comunale può ben chiedere la modifica del progetto, non perchè è cambiata la Giunta, ma solo perchè possono essere cambiati gli obiettivi che la nuova amministrazione si è prefissata per il perseguimento dell'interesse pubblico".


lunedì 19 novembre 2007

Sottotetti e furbetti del quartierino

Di seguito si riporta il testo di una lettera firmata inviata al Direttore del Giornale di Brescia, pubblicata lunedì 19 novembre 2007.


In questi giorni ho visionato per l’eventuale acquisto alcuni appartamenti in costruzione nella zona sud della città. - Con stupore ho riscontrato una pratica diffusa; il fatto che imprese e agenzie immobiliari facciano delle magie trasformando un bilocale in trilocale, ovviamente anche nel prezzo! - Cosa fanno? Vendono i sottotetti non abitabili collegati con scala interna al piano sottostante in modo da utilizzarli liberamente come abitazione dopo il passaggio del tecnico comunale ed il rilascio dell’abitabilità in barba a regolamenti edilizi, norme urbanistiche e d’igiene. - La furbata dove sta? Nel fatto che la non abitabilità del sottotetto è dovuta ad un’altezza dei locali di 2,68 o 2,69 metri anziché 2,70, il tutto riportato negli elaborati grafici approvati dalla Commissione edilizia del Comune di Brescia che finora non si è mai insospettita. - Ed ecco la famosa favola che si ripete: imprese ed agenzie immobiliari rassicurano dicendo che è tutto regolare, che nessuno si accorgerà mai di nulla, che evaderà l’Ici in quanto il sottotetto verrà accatastato come non abitabile, addirittura che, per quest’ultimo dettaglio, l’appartamento in caso di vendita sarà anche più appetibile sul mercato ecc. ecc. - Chiedo che qualche responsabile del Settore dell’edilizia/urbanistica del Comune di Brescia, considerata la probabile massiccia diffusione di questa tecnica, illustri agli acquirenti in cosa possono incorrere adibendo ad abitazione un sottotetto non abitabile. - Mi stupisco che il Comune di Brescia abbia impiegato enormi mezzi e risorse per l’approvazione del nuovo Piano Regolatore e del Regolamento Edilizio e nonostante tutto non sia riuscito a prevenire l’azione dei soliti «furbetti del quartierino».



Fin qui la lettera, che è davvero un ottimo spunto per riflettere su cosa succede - e sia successo - a proposito di sottotetti e volumi architettonici nel territorio di Passirano. Argomento sul quale contiamo di tornare presto.




venerdì 9 novembre 2007

Il Consiglio di Stato in tema di jus aedificandi

n.7843/04 Reg.Dec. N. 1366 Reg.Ric. anno 1999 - Decisione del 29 ottobre 2004


Repubblica Italiana


In nome del popolo italiano



Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente decisione sul ricorso in appello n. 1366/1999, proposto da Gennaro Moccia, rappresentato e difeso dagli avvocati Giuseppe Abbamonte e Orazio Abbamonte, ed elettivamente domiciliato presso il loro studio, in Roma, via G. Porro, n. 8;
contro il Ministero per i beni culturali e ambientali, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, e per legge domiciliato presso gli uffici di quest’ultima, in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
e nei confronti del Comune di Napoli, in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli avvocati Edoardo Barone, Bruno Ricci, Giuseppe Tarallo, ed elettivamente domiciliato in Roma, presso Gian Marco Grez, Lungotevere Flaminio, n. 46, pal. 4, scala B;
della Regione Campania, in persona del Presidente della giunta in carica, non costituita in giudizio;
per la riforma della sentenza del T.A.R. per la Campania – Napoli, sez. I, 1 ottobre 1998, n. 3069, resa tra le parti.




Visto il ricorso con i relativi allegati;
- visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero per i beni culturali e ambientali e del Comune di Napoli;
- viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
- visti tutti gli atti della causa;
relatore alla pubblica udienza del 29 ottobre 2004 il consigliere Rosanna De Nictolis e uditi l'avvocato Giuseppe Abbamonte per gli appellanti, l'avvocato dello Stato Melillo per il Ministero appellato, e l’avvocato Tarallo per il Comune di Napoli appellato;
ritenuto e considerato quanto segue.




FATTO E DIRITTO
1. Con convenzione del 20 ottobre 1926 il Comune di Napoli autorizzò la S.P.E.M.E. s.p.a. a costruire, sul versante sud della collina di Posillipo, fra Mergellina e Posillipo alto, un nuovo rione denominato Sannazzaro – Posillipo.
A questa prima convenzione fecero seguito quelle del 2 aprile 1930, del 10 agosto 1935, del 23 settembre 1948.
Infine, con d.P.R. 22 gennaio 1960, n. 75, fu approvata limitatamente alla zona di Posillipo orientale (rione Speme), una variante al p.r.g. della città di Napoli, vistata dal Ministro dei lavori pubblici, e, conseguentemente, fu stipulata la convenzione di lottizzazione del 10 ottobre 1960.

1.1. Il 31 marzo del 1972 fu approvato il nuovo p.r.g. di Napoli.
A seguito di annullamento parziale di tale piano (con sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 30 settembre 1976, n. 827), nella parte relativa alle aree della lottizzazione S.P.E.M.E., il Comune di Napoli con provvedimento 11 dicembre 1979, n. 252, adottava una variante al p.r.g. del 1972, relativa alle aree già facenti parte della lottizzazione S.P.E.M.E.
In sintesi, tale variante confermava, con diversa motivazione, le scelte già operate dal p.r.g. del 1972 in relazione alle suddette aree.
Veniva confermato che nel rione Sannazzaro - Posillipo non potessero essere realizzati altri insediamenti abitativi, ma solo attrezzature, argomentando dalla necessità di adeguare il rione ai nuovi standards urbanistici di cui alla l. 6 agosto 1967, n. 767 e al d.m. 2 aprile 1968.
La variante al p.r.g. veniva approvata dalla Regione Campania, con delibera di giunta 12 giugno 1985, n. 4705, e decreto del presidente della Regione 29 giugno 1985, n. 11563, recependo il parere del comitato tecnico regionale 17 maggio 1985, n. 225. Tale parere, a sua volta, si esprimeva in senso favorevole alla variante, con la precisazione che alle aree che sono interessate da contenzioso giudiziario è assegnata la destinazione d’uso scaturente dal provvedimento giudiziario espresso in via definitiva.

1.2. Il giudizio impugnatorio avverso tale seconda variante è stato definito all’udienza del 29 ottobre 2004 (ricorso n. 1441/1995) con rigetto del ricorso di primo grado e riconoscimento della legittimità dell’operato dell’amministrazione comunale.

1.3. L’odierno appellante è avente causa della signora Concetta Capasso, la quale nel 1967 chiedeva licenza edilizia in relazione al lotto n. 55 facente parte della lottizzazione S.P.E.M.E.
La licenza venne negata dal Sindaco con provvedimento del 9 agosto 1969.

1.4. Il ricorso, proposto dall’interessata, fu accolto con decisione del Consiglio di Stato 29 gennaio 1971, n. 14.
Rilevò il Consiglio di Stato che il diniego di rilascio di licenza edilizia era da ritenere illegittimo perché basato su un generico contrasto con una disciplina edilizia non ancora in vigore.

1.5. L’amministrazione rimase inottemperante, e adottò un nuovo provvedimento di diniego della licenza edilizia, annullato dal T.a.r. per la Campania, con sentenza n. 7 del 1977. Ritenne il T.a.r. che la licenza edilizia andava rilasciata non tenendo conto delle sopravvenienze urbanistiche successive alla notifica della sentenza di annullamento del diniego di licenza edilizia.

1.6. L’odierno appellante, nel frattempo subentrato nella titolarità del lotto n. 55, sul presupposto del giudicato favorevole per la propria dante causa, chiedeva concessione edilizia.
In data 18 marzo 1994, sempre sul presupposto del suo jus aedificandi riconosciuto dal giudicato, formulava istanza al Ministero per i beni culturali e ambientali affinché quest’ultimo gli rilasciasse la concessione edilizia in sostituzione del Comune inerte.
Il Ministero con nota prot. 24696 del 7 novembre 1995 assicurava che sarebbero stati valutati gli elementi forniti in merito alla lottizzazione S.P.E.M.E.

1.7. Nel frattempo veniva approvato il piano paesistico relativo all’area di Posillipo, preclusivo di qualsivoglia edificazione privata sulle aree comprese nella lottizzazione S.P.E.M.E.

1.8. Con ricorso al T.A.R. per la Campania e successivi motivi aggiunti, l’odierno appellante ha impugnato il decreto 14 dicembre 1995, pubblicato nella G.U. del 26 febbraio 1996, con cui il Ministero per i beni culturali e ambientali ha approvato il piano territoriale paesistico relativo all’area di Posillipo.
Il T.A.R. adito con la sentenza in epigrafe ha respinto tutti i motivi di censura.

1.9. Ha spiegato appello l’originario ricorrente.

2. Con il primo e secondo motivo di appello viene contestato il capo di sentenza n. 2, che ha respinto le censure volte a contestare l’estensione del potere sostitutivo statale, nell’approvazione del piano paesistico, in luogo della Regione Campania.

2.1. Il T.a.r. ha osservato che la pianificazione paesistica è imperativa e vincolante per i privati, e onera gli strumenti urbanistici della necessità di adeguamento alle previsioni del piano paesistico.
Il T.a.r. ha ritenuto inammissibili le doglianze con cui si lamenta che il piano paesistico non avrebbe rispettato la sua funzione programmatoria, imponendo in via generalizzata vincoli e divieti.
Le censure sarebbero altresì infondate essendosi il piano mantenuto nei limiti della sua funzione, e ben potendo un piano paesistico conformare la proprietà privata imponendo vincoli e divieti.


2.2. Parte appellante critica la sentenza osservando anzitutto che la stessa non avrebbe colto il punto centrale delle censure articolate in prime cure, con cui si lamentava la violazione del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni. Il piano sarebbe stato adottato senza valutare le proposte di una commissione formata di esponenti della Regione e degli enti locali. Inoltre il potere surrogatorio statale, nell’adozione del piano paesistico, non potrebbe invadere le competenze urbanistiche riservate a Regioni ed enti locali.
Con il secondo motivo di appello si contesta specificamente il capo 2.2. della sentenza, e si osserva che il piano ha vincolato vaste aree del territorio, vietandovi la edificazione, in contrasto con l’art. 23, r.d. n. 1357 del 1940, secondo cui il piano paesistico non potrebbe imporre un generalizzato divieto di edificazione, ma dovrebbe selezionare zone edificabili e zone non edificabili, secondo un criterio a macchia di leopardo.

2.3. Le censure sono infondate.
2.3.1. La commissione consultiva non è prevista nel procedimento tipico di formazione del piano paesistico in via surrogatoria, sicché il suo omesso funzionamento non può considerarsi viziante del procedimento, avendo altresì la stessa non una funzione consultiva vera e propria, ma dovendo solo costituire un momento di confronto dei diversi interessi.

2.3.2. Il piano paesistico relativo all’area di Posillipo ha esercitato, per quel che interessa le aree della lottizzazione S.P.E.M.E., - le sole per le quali va riconosciuto in capo all’appellante un interesse al ricorso - , compiti di salvaguardia paesistica, senza sconfinare nelle competenze urbanistiche di pertinenza di Regioni e Comune.

2.3.3. L’ultimo profilo di censura è ammissibile solo nei limiti dell’interesse del ricorrente, vale a dire limitatamente ai vincoli imposti dal piano paesistico in relazione alle aree della lottizzazione S.P.E.M.E. In relazione a tali aree,
il vincolo assoluto di inedificabilità non travalica le funzioni proprie del piano paesistico, giustificandosi in relazione alla particolarità dell’area, già interessata da una massiccia edificazione, e necessitante, pertanto, di un intervento preclusivo della ulteriore attività edilizia privata, in funzione di conservazione e recupero dei residui valori paesistici.

3. Con il terzo motivo di appello, si contesta il capo 4 della sentenza.

3.1. Il T.a.r. ha ritenuto che l’approvazione del piano paesistico sarebbe supportata da adeguata attività istruttoria, dovendosi ritenere congrua la scelta della p.a. di utilizzare una cartografia con scala 1 a 100.000; ad avviso del T.a.r. dato il carattere pianificatorio del provvedimento, neppure sarebbe necessaria una puntuale motivazione relativamente alle singole aree vincolate, a meno che non fosse necessaria una particolare considerazione di specifiche situazioni.



3.2.
L’appellante critica tale capo di sentenza osservando che egli è appunto titolare di una situazione specifica, atteso il pregresso giudicato che gli ha riconosciuto il jus aedificandi. Sicché, il piano paesistico avrebbe dovuto specificamente prendere in considerazione la sua posizione.
Osserva altresì l’appellante che la cartografia utilizzata in scala 1:100.000 sarebbe inidonea, non consentendo neppure di individuare i confini tra aree vincolate e non vincolate.

3.3. Il mezzo è infondato in tutte le sue articolazioni.

3.3.1. Il giudicato invocato dall’appellante, che ha riconosciuto il suo jus aedificandi, si è formato, come ogni giudicato, limitatamente alle questioni dedotte in giudizio e decise dal giudice.
Tali questioni, erano esclusivamente di carattere urbanistico, mentre non sono mai stati toccati, né avrebbero potuto esserlo, profili paesistici, all’epoca irrilevanti.
Sennonché, sul giudicato basato esclusivamente su questioni di carattere urbanistico – edilizio, si sono innestate sopravvenienze normative di carattere paesistico.
L’area di Posillipo (Comune di Napoli) è stata sottoposta a vincolo paesistico, in virtù di d.m. attuativo del c.d. decreto Galasso, salvato in via retroattiva dall’art. 1 quinquies, l. n. 431 del 1985.
In attuazione di tali previsioni è stato poi adottato il piano paesistico per l’area di Posillipo, oggetto del presente giudizio.
Nessun giudicato è opponibile a fronte delle sopravvenute norme paesistiche, atteso che il giudicato ha riconosciuto il jus aedificandi in relazione alle norme urbanistico – edilizie, ma nulla ha detto della esistenza o meno di tale diritto a fronte di norme paesistiche.


3.3.2. E, invero, il jus aedificandi, quale facoltà compresa nel diritto di proprietà dei suoli, non è un diritto assoluto, ma un interesse sottoposto a conformazione da parte della legge e della pubblica amministrazione, in funzione dei molteplici interessi, pubblici e privati, diversi da quelli del proprietario del suolo, che vengono coinvolti dalla edificazione privata.
Tale conformazione discende non solo dalla normativa di carattere urbanistico – edilizio, ma anche da altre normative settoriali, preposte alla tutela di altri interessi generali e pubblici.
Invero, il riconoscimento del jus aedificandi in relazione alla normativa del codice civile e alla normativa urbanistico – edilizia, di per sé non è sufficiente per la sussistenza e l’esercizio dello stesso, se il medesimo non possa essere riconosciuto in relazione ad altre normative settoriali.


Anzitutto, viene in considerazione la normativa a tutela del paesaggio e dell’ambiente: se la edificazione privata, ancorché conforme alle norme urbanistico - edilizie, è in contrasto con le esigenze di tutela del paesaggio, non può dirsi esistente ed esercitabile un jus aedificandi.
Analogamente, può dirsi della normativa posta a tutela della salute, per es. in tema di inquinamento elettromagnetico.
In conclusione, il jus aedificandi non è un diritto soggettivo assoluto, ma una facoltà soggetta a conformazione da parte di normative preposte alla tutela di molteplici interessi generali, non solo di carattere urbanistico – edilizio; con la conseguenza che tale jus, se anche riconosciuto, in virtù di giudicato, a fronte della normativa urbanistico – edilizia, non è né sussistente né esercitabile, se non riconosciuto anche dalle altre normative (a tutela del paesaggio e dell’ambiente, a tutela della salute) che devono essere rispettate per l’attività di edilizia privata. E con l’ulteriore conseguenza che a fronte di giudicati che riconoscano il jus aedificandi in relazione alle norme urbanistico – edilizie, sono rilevanti, e preclusive della edificazione, le sopravvenute normative di carattere paesistico – ambientale.
Né giova in senso contrario, la decisione della Sezione 21 settembre 1999, n. 1243: vero è che in detta decisione si è affermata la irrilevanza del vincolo paesistico sopravvenuto dopo la notificazione del giudicato di annullamento di una concessione edilizia, ma lo si è fatto perché il giudicato aveva preso in considerazione anche la normativa paesistica, e aveva annullato la concessione edilizia proprio per illegittimità derivata dalla illegittimità di precedente vincolo paesistico.
Sicché, se anche si volesse ammettere la irrilevanza, - a fronte di un giudicato che riconosce il jus aedificandi esaminando esclusivamente questioni di carattere urbanistico – edilizio -, di sopravvenute norme urbanistico – edilizie, tale irrilevanza non può essere affermata con riguardo a sopravvenute norme di carattere paesistico – ambientale, laddove i profili paesistico – ambientali non sono mai stati toccati dal giudicato.


3.3.3.
Deve altresì considerarsi che i vincoli di carattere paesistico – ambientale, che derivano da norme primarie o secondarie ovvero da piani paesistici, sono vincoli posti nell’interesse generale alla salvaguardia del bene ambiente, che costituisce patrimonio comune della collettività. Sicché tali vincoli non possono non prevalere su preesistenti interessi individuali all’edificazione, che necessariamente sono, rispetto ai vincoli sopravvenuti, recessivi.
Anche i piani di natura urbanistica devono conformarsi a quelli di natura paesistico ambientale.

Una conferma in tal senso si trae anche dalla normativa sul condono edilizio, come costantemente interpretata dalla giurisprudenza, secondo cui il condono edilizio è precluso laddove sull’area insistano vincoli paesistici di inedificabilità, e questo anche se tali vincoli siano sopravvenuti rispetto alla data della esecuzione delle opere (C. Stato, sez. VI, 20 ottobre 1999, n. 1509) e anche rispetto alla data di presentazione della domanda di condono (C. Stato, sez. VI, 4 giugno 2002, n. 3143), dovendosi valutare la situazione al momento in cui viene esaminata la domanda di condono (C. Stato, ad. plen., 22 luglio 1999, n. 20).


3.3.5. Alla luce delle suesposte considerazioni, si deve ritenere pienamente legittimo il d.m. di adozione del piano paesistico di Posillipo, d.m. che non era vincolato, dal giudicato, a considerare il jus aedificandi dell’appellato, diritto riconosciuto dal giudicato solo in relazione agli aspetti urbanistico – edilizi, e non anche a quelli paesistico – ambientali.


3.3.6. Quanto, infine all’ultima parte della censura, la stessa non è in grado di dimostrare le ragioni della irragionevolezza della scelta tecnica dell’amministrazione in ordine alla cartografia utilizzata, né è in grado di dimostrare lo specifico danno che ne deriva alle ragioni del ricorrente, e dunque lo specifico interesse a dolersi del metodo tecnico seguito dall’amministrazione.


4. Con il quarto motivo di appello si contesta il capo n. 5 della sentenza di primo grado.
4.1. Il T.a.r. ha respinto le censure relative all’iter di formazione del piano paesistico, osservando che il procedimento di formazione del piano in via surrogatoria, sarebbe alternativo a quello ordinario, sicché sarebbe sufficiente:
- acquisire il parere del consiglio nazionale;
- adottare il piano;
- e sarebbero inapplicabili le garanzie partecipative di cui all’art. 7, l. n. 241 del 1990.

4.2. Parte appellante critica la sentenza osservando che:
- non poteva essere soppresso il momento della partecipazione degli interessati;
- le norme sul procedimento di formazione del piano paesistico in via surrogatoria detterebbero regole procedimentali aggiuntive, ma non sostitutive, di quelle relative all’ordinario procedimento di formazione del piano;
- l’acquisizione del parere del Consiglio nazionale sarebbe stata puramente formalistica.


4.3. Il mezzo è infondato.
4.3.1. Si deve concordare con quanto osservato dal T.a.r., e cioè che il procedimento che il piano paesistico doveva seguire era quello disciplinato dal d.l. n. 498 del 1995, citato nelle premesse del piano stesso.
Lo scopo del d.l. in questione, come di quelli successivi (tutti non convertiti, ma fatti salvi dall’art. 2, co. 61, l. n. 662 del 1996) era di consentire la celere formazione dei piani paesistici, semplificandone, e non aggravandone, l’iter procedimentale.
A sua volta l’art. 1 bis, d.l. n. 312 del 1985, convertito nella l. n. 431 del 1985, nel disciplinare il potere statale surrogatorio di adozione dei piani paesistici, non intende rinviare al procedimento ordinario, dettando invece autonome ed esaustive regole procedimentali, mediante un rinvio agli artt. 4 e 82, d.P.R n. 616 del 1977, che a loro volta non prescrivono alcuna particolare norma procedurale.
E’ evidente che il legislatore ha inteso disciplinare il potere statale surrogatorio come un potere straordinario, da esercitarsi in via di urgenza e, in quanto, tale, svincolato dalle ordinarie regole di formazione del piano paesistico.

4.3.2. Quanto al momento partecipativo, lo stesso, a prescindere da ogni considerazione sulla sua necessità o meno in astratto, in concreto, non risulta stato violato per l’appellante, il quale aveva comunque avuto conoscenza del procedimento e aveva già interloquito presentando istanza al Ministero, con cui si invitava lo stesso a tener conto della preesistente lottizzazione S.P.E.M.E. e dei pregressi giudicati (C. Stato, sez. V, 28 maggio 2001, n. 2884).
Risulta inoltre che in sede di formazione del piano paesistico si è tenuto specificamente conto di tale lottizzazione: infatti la relazione tecnica allegata al piano si sofferma sulla lottizzazione S.P.E.M.E., sugli effetti devastanti prodotti nella collina di Posillipo, e sulla incompatibilità della sua realizzazione con le esigenze di tutela del paesaggio.
Sicché, un ulteriore apporto partecipativo dell’appellante, non avrebbe in nessun caso potuto sovvertire le valutazioni operate dal Ministero (C. Stato, sez. V, 21 gennaio 2002, n. 343).

4.3.3. Quanto infine alla censura relativa al modo di formazione del parere del Consiglio nazionale, la stessa appare inammissibile perché dà per scontato ciò che dovrebbe dimostrare, e, in particolare, che il Consiglio avrebbe acriticamente recepito la relazione del redattore dell’adottando piano paesistico. Ma se un organo collegiale, composto di esperti, decide di fare propria la relazione di uno dei componenti, motivando per relationem ad essa, questo non significa di per sé acritica recezione, ma solo adesione ad un atto tecnico che si ritiene condivisibile.

5. Con il quinto motivo di appello si contesta il capo sei della sentenza gravata.
5.1. Il T.a.r. ha osservato che:
- la partecipazione di Regioni e Comuni al procedimento di formazione del piano non era prevista dalla normativa in vigore all’epoca di formazione del piano medesimo, essendo stata introdotta solo con successivi decreti legge;
- in ogni caso tale partecipazione si sarebbe realizzata per il tramite di apposita commissione ministeriale, che costituiva un momento di confronto, senza necessità della redazione di un formale parere;
- le censure sarebbero comunque inammissibili perché il ricorrente non avrebbe impugnato la variante al p.r.g. di Napoli, con cui sono state adottate le misure di salvaguardia per l’area di Posillipo, e il Comune, con detta variante, si sarebbe adeguato alle prescrizioni del piano paesistico.

5.2. Parte appellante critica tale capo di sentenza osservando che:
- la partecipazione della Regione era imposta, in quanto suggerita da un parere dell’Avvocatura dello Stato, accolto dall’amministrazione mediante la istituzione di una apposita commissione;
- la commissione pertanto doveva esprimere un vero e proprio parere;
- la omissione del parere della commissione ha costituito violazione di una regola del giusto procedimento e del principio di leale collaborazione;
- irrilevante sarebbe la mancata impugnazione della variante al p.r.g., al fine dell’interesse a proporre le suddette censure contro il piano paesistico.

5.3. Il Collegio ritiene di dover confermare le lucide osservazioni del T.a.r. in ordine al ruolo di tale commissione, che era di un confronto dei diversi interessi locali, senza necessità che venisse reso un formale parere.

6. Con il sesto motivo di appello si contesta il capo settimo della sentenza gravata.
6.1. Si ripropongono in sintesi le doglianze di cui al terzo motivo, e si lamenta, inoltre, che, la lottizzazione S.P.E.M.E. aveva conseguito anche le necessarie autorizzazioni paesistiche, sicché il giudicato avrebbe riconosciuto lo jus aedificandi anche in relazione al profilo paesistico.

6.2. Il motivo va respinto in base alle considerazioni già esposte nel par. 3.
Si deve solo aggiungere che il giudicato favorevole al ricorrente si formò solo sulle questioni specificamente dedotte in giudizio, che erano esclusivamente questioni di carattere edilizio. Nessun giudicato si formò sulla spettanza del jus aedificandi in relazione alla disciplina paesistica, perché non c’era nessun contenzioso sul punto, sicché è insostenibile che il giudicato avrebbe sortito effetti conformativi anche nei confronti della successiva pianificazione paesistica.

7. Con il settimo e ultimo motivo di appello si contesta sempre il capo settimo della sentenza gravata, nella parte in cui osserva che comunque la specifica situazione del ricorrente sarebbe stata presa in considerazione dal piano paesistico, come emergerebbe da due note della Soprintendenza, n. 29756 dell’ 11 ottobre 1993 e n. 38465 del 16 dicembre 1994, poste a base del diniego di autorizzazione paesistica, impugnato dal Moccia in altro giudizio; anche il piano paesistico, nella relazione allegata, prende in specifica considerazione la lottizzazione S.P.E.M.E.

7.1. Parte appellante osserva che le note della Soprintendenza non si inseriscono nel procedimento di formazione del piano, bensì in quello relativo al rilascio dell’autorizzazione paesistica.
A sua volta la relazione allegata al piano, non prenderebbe in specifica considerazione la posizione del sig. Moccia, ma si limiterebbe a ripercorrere la storia della lottizzazione S.P.E.M.E.

7.2. La censura è infondata, perché la situazione del Moccia era identica a quella di molti altri proprietari, destinatari di favorevoli giudicati, anteriori al piano paesistico. Si giustifica pertanto da parte del piano paesistico, nella relazione allegata, una valutazione unitaria e uniforme di tali posizioni, con la considerazione del preminente interesse pubblico alla conservazione del paesaggio e della conseguente impossibilità di consentire l’attuazione ulteriore di suddetta lottizzazione.



8.
Per quanto esposto, l’appello va respinto.
Le spese seguono la soccombenza, e vanno liquidate in complessivi euro 2.000 (duemila) in favore del Ministero per i beni culturali e ambientali, e in complessivi euro 1.000 (mille) in favore del Comune di Napoli, mentre non si fa luogo a pronuncia sulle spese in favore della Regione Campania, che non si è costituita in giudizio.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sezione sesta), definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo respinge.
Spese a carico dell’appellante, nella misura di euro 2.000 (duemila) in favore del Ministero per i beni culturali e ambientali, e di euro 1.000 (mille) in favore del Comune di Napoli .
Ordina che la pubblica amministrazione dia esecuzione alla presente decisione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 29 ottobre 2004 con la partecipazione di:
Claudio VARRONE - Presidente
Luigi MARUOTTI - Consigliere
Giuseppe ROMEO - Consigliere
Giuseppe MINICONE - Consigliere
Rosanna DE NICTOLIS - Cons. rel. ed est.


mercoledì 3 ottobre 2007

Se il piano regolatore è sbagliato...

Di seguito uno stralcio di un articolo di Antonio Spallino, pubblicato il 6 settembre scorso su “La Provincia di Como”.


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Sembra di essere ritornati agli anni Cinquanta quando l'impetuosità della ricostruzione del Paese aveva contagiato anche l'area della rendita edilizia. Allora, in un contesto privo di pianificazione territoriale o solcato da sedicenti piani urbanistici, si poteva costruire per il triplo, il quadruplo, il decuplo delle esigenze ragionevolmente prevedibili nell'arco di un decennio. Questa è la storia scritta, per esempio, da Leonardo Borgese nel volume "L'Italia rovinata dagli italiani".


Quali sono, in questi anni, le cause delle nuove inciviltà? Come affrontarle in sede locale? E qual è l'atteggiamento dei legislatori? Il tema è ovviamente di natura giuridica-normativa. Ma, forse, meno ovviamente, è ancor prima di carettere culturale ed etico. La prima riflessione porta alle modalità di approvazione dei piani regolatori urbanistici, generali e attuativi.

Ci si chiede: se tutte le edificazioni di questi anni sono "conformi" alle norme locali, i piani che le hanno permesse sono stati votati da amministratori consapevoli? In quei piani di "sviluppo" gli amministratori hanno davvero previsto e valutato gli effetti che avrebbero prodotto sull'ambiente circostante?


O, invece, quei piani sono figli di amministratori pubblici vittime dell'arrendevolezza e dell’obbligo di fare un piacere al prossimo? E' chiaro che, in ogni caso, la responsabilità degli amministratori che, quei piani, li hanno varati è enorme, anche perché i guasti prodotti sono adesso assolutamente irreparabili.


In moltissimi casi quei piani si sono rilevati talmente inconciliabili con le vere necessità di "sviluppo" del territorio da mettere a rischio perfino «la memoria del futuro» (Stille) e le stesse identità locali.


Ecco perché, non appena constatati i macroscopici "errori" derivati dalla attuazione dei piani, i Sindaci e le Giunte avrebbero dovuto avviare con immediatezza la revisione dei loro strumenti pianificatori. Perchè, in troppi casi, era del tutto evidente l’urgente necessità di riprendersi il governo sociale e culturale del territorio dopo aver visto i primi risultati di piani regolatori disastrosamente sbagliati.


Non risulta che ciò sia avvenuto. E i politici locali non possono certo giustificarsi a posteriori adducendo il fatto che la nuova legge urbanistica regionale n.12 del 2005 prevede che i Comuni dovessero sostituire i Prg con i nuovi strumenti in essa prescritti. In questo campo il dovere di agire era nelle mani di Sindaci e Giunte, in quanto massimi esponenti delle comunità locali.

Perché nessun paragrafo di legge, nessuna autorità può essere d'aiuto, se il politico non sente che la res publica, il bene comune di una esistenza umana libera e dignitosa è affidato nelle sue mani. Poter governare significa, dunque, ritrovare sempre quella misura così minacciata su cui dovrà poggiare il benessere di tutti.


Ma se negli amministratori pubblici non è sufficientemente forte la capacità di conservare la memoria delle radici da cui proveniamo, di recuperare e sviluppare un atteggiamento contemplativo che renda sensibili agli appelli provenienti dalla realtà naturale ed umana, di conciliare potere e giustizia, allora è facile smarrire il senso della posizione umana. E ignorare l’esistenza di un'etica del “lavoro pubblico”.

Non si pretende dall'Assessore comunale all'urbanistica o dal Sindaco di essere urbanisti. Quella dell'urbanistica è materia interdisciplinare, che implica cognizioni di pianificazione territoriale e di architettura, di sociologia e di modellistica ambientale.

Ciò che si deve pretendere dall'amministratore pubblico – sempre, e con molto rigore - è invece il primato dell'etica, cioè una coscienza individuale pronta a percepire e a difendere sempre e comunque il bene comune, trascendendo i condizionamenti materiali e sociali.

Questo è il duro nucleo dell'esercizio del dovere-potere amministrativo.