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venerdì 4 luglio 2008

I controlli dei cittadini danno forza alla democrazia

Stralcio di un articolo di Franco Locatelli pubblicato su "Il Sole24Ore" del 17 marzo 2008.




E' vero che la campagna elettorale in corso invade le case di tutti noi e monopolizza le pagine dei giornali e delle trasmissioni radiofoniche e televisive, ma togliamoci dalla testa l'idea che la democrazia si esaurisca nella partecipazione al voto ogni cinque anni. Una democrazia compiuta è ben altro e richiede impegno costante di informazione, controllo, denuncia, protesta e proposta di tutti i cittadini per spronare le Istituzioni a dare il meglio di sè nell'interesse di tutti.


Proprio per questo l'iniziativa assunta dalla Fondazione Civicum sulla chiarezza e trasparenza dei bilanci dei Comuni italiani merita un plauso sincero perchè è un esempio di sensibilità e di impegno civico sempre più rari. L'idea di confrontare il modo in cui i nostri Comuni redigono i bilanci e li comunicano e quella di compararli [...] non è un semplice esercizio contabile, ma un modo concreto di chiedere conto agli amministratori comunali di quello che non hanno saputo o voluto fare.


In un periodo di finanza pubblica difficile e di federalismo più o meno strisciante, occorre cominciare a guardare molto da vicino i bilanci finora inaccessibili dei Comuni, [...] e va giudicata altamente meritoria l'opera di chi punta a stimolare una trasparenza pubblica non fine a se stessa ma volta ad illuminare i cittadini su cosa fanno i loro Comuni, e quali risultati ottengono, ma a consuntivo e non semplicemente a preventivo dove valgono spesso vaghe promesse. [...]


A dimostrazione di quanto utile sia la pressione della società civile organizzata per far sì che i Comuni imparino a considerare la trasparenza nei conti di casa non come un fastidio o un orpello, ma come un esercizio essenziale di buona amministrazione e di vera democrazia.




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martedì 24 giugno 2008

In morte dell'ICI

Di Gilberto Muraro, tratto dal sito lavoce.info



L'abolizione dell'Ici è una vittoria dell'apparenza sulla sostanza. Proprio perché l'imposta riguarda l'80 per cento degli italiani, dovrebbe essere chiaro che gli stessi beneficiari dovranno pagare in altre forme quello che è presentato come un regalo. Il minor gettito dei comuni sarà compensato con trasferimenti dal centro. Ma mentre l'Ici si autoregola, un sussidio per definizione genera una domanda unanime di incremento. Tutto fa pensare che nella manovra su imposte nazionali per sostituirne una locale non ci sia alcun guadagno né di efficienza né di equità.

Abolire l’imposta comunale sugli immobili sulla prima casa. Silvio Berlusconi mantiene l’impegno elettorale, e fin qui merita un applauso; ma si tratta di un pessimo impegno. È stata una rincorsa al peggio (promessa di Berlusconi nel 2006, forte riduzione da parte del governo Prodi, e ora abolizione totale), da ricordare a lungo come esempio di cattiva manovra tributaria e come vittoria dell’apparenza sulla sostanza.


UN'IMPOSTA CON LE CARTE IN REGOLA
Per spiegare tale tesi va premesso che non c’è paese al mondo in cui la finanza locale non sia alimentata in buona parte dalle imposte sugli immobili, comprese le prime case. Il perché è intuibile. A differenza delle imposte sui redditi e sui consumi, l’Ici non fa litigare i comuni perché la casa sta con certezza da una parte o dall’altra. La casa è poi beneficiaria di una quota importante della spesa locale: spese per viabilità, trasporti, illuminazione, arredo urbano, sicurezza, e così via. L’Ici si presenta quindi in regola con il principio tributario del beneficio – si paga in relazione al vantaggio ricevuto dalla spesa pubblica - che nella finanza locale esercita ancora un grande ruolo.

Può inoltre essere resa moderatamente progressiva attraverso detrazioni alla base, che fanno sì che il pagamento cresca più che proporzionalmente con il valore. Si rispetta così anche il principio costituzionale della capacità contributiva: paga chi può, indipendentemente dai benefici individuali ricevuti, a parte che anche un’Ici strettamente proporzionale genera un gettito progressivo rispetto al reddito, perché i patrimoni risultano più concentrati dei redditi.

Non meno importante il ruolo dell’Ici ai fini della buona gestione della “res publica”. Al pari della tassa dei rifiuti solidi urbani, ma con un raggio di azione più ampio, consente infatti ai cittadini di farsi un’idea fondata del rapporto costi benefici dell’attività pubblica e quindi di giudicare correttamente il governo locale e di calibrare la domanda politica: chiedere più servizi e più tasse o meno servizi e meno tasse, se si ritiene di avere una giunta efficiente; oppure pretendere più efficienza e, in prospettiva, cambio di maggioranza, se si ritiene di avere una giunta incapace. In sintesi, l’Ici è l’ onere condominiale pagato dagli abitanti di quel vasto condominio che è la città: costoso ma educativo strumento di informazione e di partecipazione.


L'ILLUSIONE TRIBUTARIA
Ma ciò che sorprende e mortifica in questa storia è il risvolto psicologico. L’Ici sulla prima casa riguarda l’80 per cento degli italiani. Tutti felici, quindi. Ma proprio perché sono tanti, anzi sono quasi tutti i contribuenti dato che il restante 20 per cento è rappresentato in media da famiglie con bassi redditi, dovrebbe essere chiaro che gli stessi beneficiari dovranno in altre forme pagare ciò che viene loro presentato come un regalo. Tecnicamente si parla di “illusione tributaria”, ossia di errata percezione che fa credere a benefici superiori o a costi inferiori rispetto alla realtà.

Non è la prima e non sarà l’ultima, ma è probabilmente la più vistosa illusione tributaria che si ricordi in tempi recenti. Fa specie che a nessuno venga in mente di chiedere agli abolizionisti di destra e di sinistra come sarà compensato il minor gettito. Con trasferimenti dal centro,ovviamente. Quindi, senza sacrificare i servizi pubblici locali. Ma i conti tornano solo in un primo momento: in seguito, chi e come regolerà la dinamica del sussidio?

Un’Ici si autocontrolla, perché il sindaco deve soppesare la popolarità resa dai maggiori servizi con l’impopolarità creata dalla più pesante imposta. Un sussidio per definizione non basta mai sul piano politico e genera una domanda unanime di incremento, alimentando tensioni tra centro e periferia. E comunque, dove il governo troverà i fondi per i comuni? Si spera che nessuno voglia aumentare il debito pubblico, interrompendo quel cammino doloroso ma virtuoso di risanamento avviato da Tommaso Padoa-Schioppa. Ed è difficile pensare a drastiche e immediate riduzioni di spesa pubblica. Non restano quindi che le grandi imposte sui redditi, gli affari e i consumi.

Cambia poco se si ipotizza un aumento di tali imposte oppure se, immaginando un maggior gettito generato dalla crescita economica o dalla lotta all’evasione, si ipotizza una loro mancata riduzione. In ogni caso, si tratta di una manovra su imposte nazionali che sostituisce un’imposta locale. E tutto fa pensare che non ci sia alcun guadagno né di efficienza né di equità. Di sicuro, l’effetto è negativo sotto il profilo del federalismo fiscale sia perché si indebolisce l’autonomia locale sia perché affidarsi al prelievo nazionale significa accentuare e non riequilibrare il flusso di risorse che dal Nord va al Sud.

Detto tutto questo, va aggiunto che le prime stime di caduta del gettito, rispetto all’Ici già ridotta da Prodi, vanno da 1,7 a 2,1 miliardi di euro. Si tratta di una caduta importante, ma non tale da destabilizzare il sistema. Nessuna tragedia, quindi. Ma sia chiaro che è un passo indietro, non un passo avanti.
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giovedì 29 maggio 2008

Le 2 parole d'ordine: razionalizzare e organizzare

Articolo di Massimiliano Magli pubblicato su BresciaOggi del 9 maggio 2008.


Castrezzato: approvato un consuntivo da record, con un avanzo di quasi 3 milioni di euro, senza ridurre i servizi. Il Comune è virtuoso? Risparmia sul personale.

Una lezione di bilancio per tutti i Comuni, alle prese con i «paletti» della Finanziaria e del Patto di stabilità. A fare scuola è il Comune di Castrezzato, che ha approvato un bilancio consuntivo da record. Il motivo non è nell'avanzo di bilancio, che ammonta a 2,95 milioni di euro, ma nella natura consolidata del trend. «Contrariamente alla generalizzazione che indica un avanzo tanto importante come un’ occasione perduta per il Comune in fatto di investimenti - sottoline il sindaco Pierluigi Treccani - nel nostro caso l’ avanzo è stato raggiunto dopo aver garantito e potenziato i servizi nonché le opere a disposizione».

Il risultato è stato infatti ottenuto a dispetto di investimenti importanti, come quelli per la nuova scuola materna e la sistemazione degli altri plessi dell'istituto comprensivo, per quasi cinque milioni di euro. Inoltre è stato assunto in pianta stabile un nuovo assistente sociale. Invece sono state significativamente ridotte le spese per il personale, che sono passate dai 604 mila euro del 2003 ai 482 mila del 2007. «Razionalizzare e rendere efficiente il personale - spiega il sindaco - ecco spiegato come ridurre le spese. Nessun licenziamento: abbiamo semplicemente evitato di riassumere personale dopo il pensionamento di due dipendenti, rivedendo però l'assetto organizzativo del Comune, con criteri di efficienza e funzionalità». Oltre a responsabilizzare il personale, anche con l'assegnazione di incentivi finalizzati, l'intervento ha riorganizzato gli uffici, spostando molte pratiche su internet.

E l'avanzo di amministrazione non è una novità: «Una buona Amministrazione - dice Treccani - deve pensare anche agli anni futuri, indipendentemente dal fatto che vi sia o meno un'altra maggioranza. E' per il bene della comunità». E in effetti l'avanzo di 1,9 milioni di euro trovato nel 2004 è andato crescendo, toccando 3,7 milioni di euro nel 2004 per poi assestarsi a 1,9 milioni di euro e crescere a 2,65 milioni di euro nel 2006 e a 2,95 nel 2007.

Un altro parametro importante per valutare il valore di un bilancio in avanzo non può che essere la pressione fiscale. Invece a Castrezzato la pressione tributaria è passata dai 286 euro del 2003 ai 196 del 2007. E infine la spesa per investimenti è andata crescendo dal milione di euro del 2003 a 1,2 milioni dello scorso anno.

«La finanza creativa del nuovo ministro per l’Economia Giulio Tremonti - conclude il sindaco Treccani - è una presa in giro, perchè significa togliere da una parte e mettere nell'altra, un po' come nascondere sotto il tappeto. Invece una gestione seria deve passare da scelte talvolta difficili ma calcolate per il bene della comunità. Auspico che lo stesso sia fatto dalle future Amministrazioni, senza calcoli opportunistici a breve termine».
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mercoledì 28 maggio 2008

Federalismo a singhiozzo

Articolo del Corriere della Sera del 18 maggio 2008.




Nella cittadina americana in cui vivo, nello stato del Massachusetts, il sindaco ha deciso di costruire una nuova scuola. Sostituirebbe un edificio del 1970, che funziona ma comincia a mostrare i suoi anni. Costo stimato del progetto, circa 200 milioni di dollari (130 milioni di euro). Poiché negli Usa le scuole sono interamente finanziate dalle città — non solo gli edifici, anche gli stipendi degli insegnanti — per far fronte a questa spesa il sindaco ha deciso di aumentare per qualche anno l'Ici. (Oggi l'aliquota è l'1%, non del valore catastale, come in Italia, ma del valore di mercato della casa, aggiornato ogni anno tenendo conto dei prezzi di abitazioni simili vendute nel corso dell'anno).

I cittadini (circa 80.000 famiglie) si sono ribellati e hanno chiesto un referendum. Il 20 maggio voteranno su tre proposte: (1) accettare la decisione del sindaco, (2) cancellare il progetto della nuova scuola e non aumentare l'Ici, (3) accettare l'aumento dell'Ici, ma destinare il maggior gettito all'assunzione di nuovi professori per migliorare la qualità delle loro scuole. Sul sito internet del Massachusetts, www.mass.edu/mcas, si può consultare una classifica delle scuole dello Stato, compilata sulla base di un test che viene svolto ogni anno dagli allievi di ciascuna scuola. Si è osservato che, se le scuole di una città peggiorano, il prezzo delle case scende, il gettito dell'Ici si riduce e la città declina.

Questo è federalismo! «Crescere vuol dire incentivare forme di autogoverno federalista», ha detto Silvio Berlusconi la scorsa settimana presentando il suo programma al Parlamento. Ma allora perché il primo atto del nuovo governo è la cancellazione del-l'Ici? Di tutte le imposte l'Ici è la più federalista, e anche la più efficiente. Il gettito non va a Roma, rimane ai Comuni. E se con quel gettito il sindaco non aggiusta le strade, i cittadini, incontrandolo in piazza, possono chiedergliene conto e avvisarlo che se continua così non verrà certo rieletto. Chi può controllare come sono utilizzate le imposte che affluiscono al governo centrale? A chi può rivolgersi il cittadino se pensa che i servizi che riceve dallo Stato centrale non valgano le tasse che paga al governo di Roma?

Ieri il sottosegretario Vegas ha detto che i Comuni verranno compensati per il gettito perduto. Doppio errore: innanzitutto perché se così fosse le tasse evidentemente non scenderebbero.
E poi perché quel sindaco che non aggiusta le strade potrebbe dire che non è colpa sua, ma del governo che gli lesina risorse. Come ha scritto l'ex-rettore dell'università di Padova, Gilberto Muraro ( www.lavoce.info), «l'abolizione dell'Ici è una vittoria dell'apparenza sulla sostanza. Il minor gettito dei Comuni sarà compensato con trasferimenti dal centro. Ma l'Ici si autocontrolla, perché il sindaco deve soppesare la popolarità resa dai maggiori servizi con l'impopolarità creata dalla più pesante imposta. Un sussidio per definizione non basta mai sul piano politico e genera una domanda unanime di incremento, alimentando tensioni tra centro e periferia».

Fanno bene Berlusconi e Tremonti a iniziare tagliando le tasse. Purché lo facciano davvero, non per finta: lo avessero fatto nel 2001, forse cinque anni dopo non avrebbero perso le elezioni. Ma qualcuno mi spiega perché di tutte le imposte vogliono cominciare proprio dall'Ici?



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martedì 27 maggio 2008

Le auto-pagelle: tutti bravi. E scattano premi ed incentivi

Stralcio di un articolo di Enrico Marro e Sergio Rizzo pubblicato sul Corriere della Sera del 21 maggio 2008.



«Anch'io disprezzo i fannulloni. Ma se c'è un fannullone è chi dirige male o non c'è proprio a dirigere». Parola di Raffaele Bonanni. Ma forse, quando ha sferrato l'attacco ai dirigenti pubblici, il segretario della Cisl non aveva ancora letto l'ultimo bollettino dell'Aran, l'agenzia governativa per i contratti del pubblico impiego. Perché se l'avesse fatto avrebbe scoperto che l'84% dei dirigenti dell'Agenzia delle entrate valuta se stesso «più che adeguato» all'impresa, se non addirittura «eccellente» in relazione al raggiungimento degli obiettivi. E quelli che restano? Quelli si considerano almeno «adeguati». Insomma, non ce n'è nemmeno uno che si reputi davvero scarso.

Ma se vi chiedessero «datti un voto», sapendo che dal giudizio che vi date potrebbe dipendere un aumento di stipendio, oppure un progresso di carriera, rispondereste qualcosa di diverso? Eppure, incurante di autorevoli studi americani che dimostrano come l'«autovalutazione» porti inevitabilmente a sopravvalutarsi, l'Agenzia delle entrate ha pensato di fondare il proprio sistema di misurazione del merito dei dirigenti proprio su questo principio.

E il responsabile dell'organizzazione, Marco Annecker, ha impiegato undici pagine fitte del bollettino Aran per spiegare perché, presentando i primi risultati del nuovo sistema introdotto nel 2006. La sua relazione comincia con la citazione della famosa frase che campeggia sul tempio di Apollo a Delfi: «Conosci te stesso ». Chiaro, no? Più oscuro, invece, è il motivo per cui il sistema di valutazione dei dirigenti sia stato battezzato con il nome di una stella, S.I.R.I.O: «Sistema Integrato di Risultati, Indicatori e Obiettivi». Anche perché Sirio è la stella «del cane».

Ma non è la prima volta che i creativi delle Entrate si applicano nella ricerca di improbabili acronimi. Sapete come si chiama la banca dati dell'Anagrafe tributaria? Serpico, proprio come il famoso detective anticorruzione americano. Dove però «Ser.P.I.Co» sta per «Servizio Per le Informazioni sui contribuenti ». Complimenti. Ma c'è anche il R.A.D.A.R.: Ricerche e Analisi Decisionale per l'Accertamento del Reddito.

Inseguendo Sirio, i 1.352 dirigenti scoprono da sé quanto sono bravi attraverso un complicato percorso di «autovalutazione strutturata» costruito con un software raffinato. Che dovrebbe mettere al riparo anche da eccessi di autostima. Già, ma come? Dice la relazione: «Quanto alla possibile obiezione che i racconti degli interessati potrebbero non rispondere a verità... più che mai può qui valere il detto secondo il quale "le bugie hanno le gambe corte"». Del resto, «se è giusto che il valutato pretenda oggettività dai valutatori, anch'egli deve per primo seriamente impegnarsi in un'analisi obiettiva».

Insomma, fanno a fidarsi. Ma fino a un certo punto. Perché il dirigente superiore, che evidentemente non ha l'anello al naso, provvede a ridimensionare i giudizi palesemente esagerati, senza sorpresa e senza danno per l'interessato. Il quale, male che vada, si vede «retrocesso» da «eccellente » al grado di «più che adeguato». Correzione che fa scendere il numero delle presunte eccellenze dal 40% a meno del 10%. Circostanza della quale l'Agenzia delle entrate sembra addirittura rammaricarsi, dato che l'obiettivo di S.I.R.I.O. è «la condivisione dei giudizi... vale a dire la sintonia fra come io valuto me stesso e come l'altro valuta me».Ma anche le amministrazioni che non si sono imbarcate in progetti altrettanto «stellari» (e probabilmente costosi) di valutazione, non rinunciano al giudizio fai da te.

Al ministero dell'Economia, per esempio, i dirigenti di seconda fascia compilano ogni anno un questionario sui «comportamenti organizzativi» con relativo «punteggio conseguito». Punteggio, per inciso, che si danno da soli. A fianco della loro autovalutazione c'è una colonna riservata al dirigente generale che può confermare o meno i voti che i loro sottoposti si sono attribuiti. Quanti pensate che siano i bocciati? Nessuno. Anche perché salterebbero i premi collegati. D'altra parte, se su 3.769 alti dirigenti dello Stato, non ce n'è uno che abbia avuto un giudizio mediocre, una ragione ci deve pure essere.

L'economista Nicola Rossi ha raccontato domenica sul Corriere che al ministero dello Sviluppo, se ogni funzionario può essere valutato da un minimo di 3 a un massimo di 9, c'è un accordo sindacale che prevede che la media dei voti non possa essere inferiore al 6. Per non parlare della Regione Siciliana dove, secondo la Corte dei Conti, dal 2001 al 2006 tutti i 2.196 dirigenti hanno avuto in busta paga trattamenti economici di posizione pari al massimo.

Possibile? Possibile. Perché in Sicilia l'«autovalutazione» è in vigore da sette anni. Anzi, sono stati loro i precursori di quello che hanno chiamato più pietosamente «autoreferto». Tecnicamente, la diagnosi della malattia effettuata dallo stesso malato. Ma il merito? Quello resta in subordine. [...]




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giovedì 22 maggio 2008

Siamo a difesa dei cittadini, non dei costruttori

Articolo del Giornale di Brescia del 21 maggio 2008. Il presidente dell’Acb, Carlo Panzera: «Siamo a difesa dei cittadini e non dei costruttori»


Per i Comuni bresciani comincia un periodo buio. Se il taglio dell’Ici sulla prima casa, preventivato dal neo ministro all’Economia, ha suscitato delle perplessità tra i sindaci di tutta la provincia, la sentenza del Tar va ad ostacolare, e non di poco, il percorso che doveva portare alla piena autonomia finanziaria degli enti locali.

Dopo tutti i buoni intenti espressi dalle Amministrazioni comunali bresciane intenzionate a gestire in maniera autonoma (e decentrata) le attività catastali, lo stop imposto dal Tribunale amministrativo del Lazio, giunge negli uffici dell’Associazione dei comuni bresciani come un fulmine a ciel sereno. «Non siamo più degli sbarbatelli e sappiamo come gira il mondo - ribatte un pò stizzito il presidente dell’Acb, Carlo Panzera -: questo verdetto è una cosa demenziale».L’Anci, insieme a 2.500 Comuni italiani, presenterà ricorso al Consiglio di Stato, in quanto ritiene che le motivazioni espresse dal Tar sono fondate su un’erronea interpretazione della volontà del Legislatore.

«Nel frattempo - continua Panzera - continueremo a difendere i cittadini e non i costruttori edili attendendo che la Giustizia faccia il suo corso e che il Governo assumi una posizione di merito. Dopotutto, basti pensare al resto d’Europa dove i Comuni si finanziano attraverso un’autonomia impositiva e poi la gestione decentrata dell’anagrafe immobiliare è una condizione necessaria per arrivare al così tanto acclamato federalismo fiscale».


Detto questo, il pensiero va a quei poli catastali già costituiti e che d’ora in avanti saranno impossibilitati a prendere decisioni o stilare programmi operativi, in quanto si troveranno a digiuno di risorse e orfani di un vero appoggio istituzionale. Resta poi un’ultima segnalazione da fare e riguarda un Decreto legislativo del 1998 (quindi antecedente al Dpcm del 2007 contestato da Confedilizia) dove è espressamente indicato che «sono attribuite agli Enti locali le funzioni relative alla conservazione, all’utilizzazione ed all’aggiornamento degli atti catastali, partecipando al processo di determinazione degli estimi catastali fermo restando quanto previsto per le funzioni mantenute dallo Stato in tale ambito». Un punto, questo, che negli uffici dell’Acb non sarà di certo passato inosservato.
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venerdì 16 maggio 2008

La riforma della Pubblica Amministrazione

Lettera di Franco Bassanini pubblicata sul Corriere della Sera del 15 maggio 2008.


Sfida per Brunetta: premi legati ai risultati.
Caro Direttore, quasi fermo da alcuni anni, il processo di ammodernamento delle nostre amministrazioni pubbliche sta, forse, per ripartire. Se alle parole seguiranno i fatti, sarà una buona notizia per il Paese. Al netto di alcune esuberanze verbali, che sono nel carattere dell'uomo, il nuovo ministro per la Funzione pubblica, Brunetta, sembra infatti avere le idee chiare: occorre por mano a due rivoluzioni, enunciate nelle leggi, mai attuate in concreto (salvo rare best practices).
La rivoluzione meritocratica: migliorare la produttività, premiando i capaci e i meritevoli, sanzionando e anche licenziando i fannulloni e gli incapaci. La rivoluzione digitale: utilizzare le Ict non solo per mettere online informazioni, moduli e certificati (già avviene), ma per erogare servizi e prestazioni, e perciò per riorganizzare (reingegnerizzare) e semplificare radicalmente la macchina amministrativa.


Per far ciò, non occorrono nuove leggi: basta attuare la riforma degli anni Novanta. Comincio dal fondo. È raro che ministri ambiziosi rinuncino a progettare nuove riforme: così, in attesa di nuove leggi, passano anni prima che arrivi il momento dei fatti (le leggi, da sole, non cambiano la vita dei cittadini, delle imprese, delle stesse Pubbliche Amministrazioni!). Brunetta parte col piede giusto: le norme ci sono, la riforma degli anni Novanta è largamente apprezzata (all'estero). Al più, abbisogna di qualche ritocco.


Avendone avuto una qualche responsabilità (insieme col povero Massimo D'Antona), aggiungo che fu una riforma bipartisan, sostanzialmente condivisa, costruita con l'apporto dell'allora opposizione di centrodestra e delle principali organizzazioni sindacali e imprenditoriali.In materia di Pa le buone riforme non sono né di destra né di sinistra: in Gran Bretagna la cominciò la Thatcher, la continuò Blair. Ci sono già anche le norme per licenziare fannulloni e incapaci. E per incentivare il miglioramento della qualità dei servizi e delle prestazioni.

Dal 1998, la Pubblica Amministrazione ha nei confronti dei suoi dipendenti gli stessi poteri, obblighi e diritti del privato datore di lavoro, compreso il potere di licenziare per giusta causa. E infatti alcuni licenziamenti si fanno; ma si contano sulle dita di una mano. Perché? Perché i sindacati si oppongono? Perché i dirigenti non hanno i poteri necessari? Ma i dirigenti hanno ormai i poteri dei dirigenti privati. E Cgil, Cisl e Uil hanno risposto a Brunetta che non difenderanno i fannulloni e gli incapaci: negli ultimi contratti pubblici sono previsti la sospensione dal lavoro da 11 giorni a sei mesi per gli assenteisti e il licenziamento in tronco per gli assenteisti recidivi.


Cosa occorre allora? Occorre attivare il meccanismo virtuoso previsto dalla riforma per introdurre nel pubblico gli incentivi e le sanzioni che nel privato vengono dal giudizio del mercato. I politici (ministri, sindaci, presidenti di Regioni e province, assessori) devono tradurre i programmi in obiettivi precisi e quantificati per ciascuna amministrazione; devono istituire meccanismi imparziali e affidabili per valutare risultati e performances, e per confrontarli con le valutazioni degli utenti; e su questa base premiare gli incrementi di produttività e sanzionare l'inefficienza.

Immaginiamo che agli ospedali e ai laboratori del Servizio sanitario nazionale sia fissato l'obiettivo di ridurre del 15% all'anno le liste d'attesa, che sia affidato (mediante gara) a una grande società di revisione il compito di verificare i tempi medi di attesa in ciascuna struttura, e che a questa valutazione siano legati gli aumenti di stipendio dei dirigenti e dipendenti di ciascuna struttura. È probabile che allora il capo del personale troverà il coraggio di usare i poteri che ha per sostituire i fannulloni e gli incapaci con giovani diligenti e competenti, che il resto del personale (e i sindacati) staranno dalla sua parte, che gli utenti apprezzeranno.


Ma il ceto politico italiano è finora mancato a questo compito. Considera la definizione di obiettivi precisi e realistici (che è un lavoro, impegnativo e faticoso), uno spreco di tempo, o forse un ostacolo a un uso clientelare della Pa. E gli alti burocrati sono ben contenti di potersi così sottrarre a ogni valutazione. Si può costringerli a farlo? Penso di sì: per esempio, vietando a ministri e sindaci di sostituire i dirigenti, finché non saranno in grado di valutarli imparzialmente; e congelando una quota delle retribuzioni, che per legge deve essere collegata ai risultati, finché i risultati non saranno verificati. Nulla di impossibile né di rivoluzionario: in Australia e Canada lo fanno, e la Commissione Attali l'ha proposto per la Francia.
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martedì 13 maggio 2008

Ma stai a guardare il capello?

Articolo di Sergio Rizzo pubblicato sul Corriere della Sera del 6 maggio 2008.



Se nella pubblica amministrazione il merito resta ancora un sogno, ci si accontenti almeno della «virtuosità». Grazie a questa parolina magica sarà distribuito a circa 550 mila dipendenti pubblici un aumento fino all'1,5 per cento del monte salari. Naturalmente oltre a quello del 4,85 per cento, uguale per tutti, stabilito dall'ultimo contratto nazionale e che costerà alle casse dello Stato 887 milioni di euro. Unica condizione per avere l'aumentino supplementare è che l'amministrazione di appartenenza sia considerata «virtuosa ».

E come si valuta questa virtù? Non sulla base di una particolare produttività del lavoro, né sull'efficienza degli uffici, e neppure sulla qualità dei servizi resi ai cittadini. Semplicemente, si può essere considerati «virtuosi » se si rispetta un determinato tetto di spesa per il personale in rapporto alle entrate o alle uscite. Punto e basta. Va subito precisato che non si tratta di una cosa nuova.

Il principio era stato già introdotto con il precedente contratto degli enti locali, stipulato quando c'era il precedente governo di Silvio Berlusconi. Soltanto che ora i soldi destinati a quel regalino sono aumentati ancora, raggiungendo la ragguardevole somma di 175 milioni di euro. E regalino, se è vero quello che hanno scritto i giudici della Corte dei conti, è proprio il termine esatto. Perché, hanno rilevato i magistrati contabili, «dalla relazione tecnica dell'Aran risulta che l'83,2% degli enti locali raggiunge la condizione di virtuosità, mentre il 100% delle Regioni e delle città metropolitane (i comuni più grandi, ndr) raggiungono per intero il cosiddetto parametro di virtuosità per esse stabilito. Come appare evidente, questo parametro appare facilmente raggiungibile dalla quasi totalità degli enti».

Non che questo possa essere considerato stupefacente, in un Paese nel quale gli incentivi economici ai dipendenti pubblici vengono corrisposti prevalentemente sulla base di un criterio disarmante: la sola presenza sul luogo di lavoro. Ma il fatto che sia definito «virtuoso» l'ovvio rispetto di un tetto di spesa fissato per legge, e che il mancato rispetto di quel limite dia luogo non a una sanzione, ma soltanto a un mancato premio, dev'essere apparso tanto macroscopico al Tesoro da indurre il ragioniere generale dello Stato Mario Canzio a segnalare come «la condizione di virtuosità degli enti» fosse «ancorata a un unico e insufficiente parametro». Ma più di quello non ha potuto fare.

Così al presidente della sezione della Corte dei conti che ha esaminato la faccenda, Rosario Elio Baldanza, non è rimasto, qualche settimana fa, che bocciare il contratto. Rilasciando una «certificazione non positiva ». Con questa motivazione: «La corresponsione di rilevanti risorse aggiuntive, fino all'1,5% del monte salari, risulta correlata a parametri non indicativi di una effettiva virtuosità gestionale, in mancanza di una finalizzazione delle risorse stesse a miglioramenti di produttività individuale e dei servizi».

Ciliegina sulla torta: quando si è fatto il contratto, lo Stato non conosceva nemmeno il numero esatto dei dipendenti degli enti locali a cui si doveva pagare l'aumento. La Ragioneria generale aveva infatti una cifra, e l'Aran, l'agenzia governativa incaricata di negoziare materialmente il contratto con i sindacati (e al cui vertice paradosso vuole che siedano sindacalisti del calibro dell'ex segretario confederale della Uil Giancarlo Fontanelli, e personalità almeno molto vicine al sindacato come il direttore della pubblicazione della Cgil Quaderni di Rassegna sindacale, Domenico Carrieri), ne aveva una diversa. Tremila persone in più. Ma stai a guardare il capello?


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martedì 22 aprile 2008

I conti dei Sindaci

Stralcio di un articolo di Gianni Trovati pubblicato il 17 marzo 2008 su "Il Sole24Ore".


Due domande: siete in grado di dire se nel corso dell'ultimo mandato la Giunta del vostro Comune ha arricchito o impoverito il vostro patrimonio di cittadini? E quando siete andati a votare per per rinnovarle la fiducia o mandarla a casa, avete scelto anche sulla base degli effetti che le scelte amministrative hanno avuto sulla ricchezza, in senso lato, del Comune?

Se entrambe le risposte sono negative, siete in Italia. E non è colpa vostra. Perchè da noi i bilanci degli Enti Locali, come accade a molti enti pubblici, non si fanno leggere. E anche quei pochi che si buttano nel mare di grafici e tabelle che dovrebbero illustrare i risultati dell'Amministrazione ne escono senza le informazioni che cercavano. Il fatto è che la chiarezza dei conti non è mai stata in cima ai pensieri del legislatore, e non sembra aver occupato troppo nemmeno i pensieri degli amministratori locali. [...]



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giovedì 17 aprile 2008

I compiti del difensore civico

Lettera al Corriere della Sera pubblicata il 17 aprile 2008, con risposta del giornalista che ha scritto l'articolo citato dal lettore.


Ho letto l'articolo dal titolo «Il difensore civico fine di un'illusione» (clicca qui), accompagnato da un catenaccio altrettanto esplicito ed inequivocabile: «Ha perso potere, non tutela più i cittadini». Riteniamo doveroso, avendone per altro avuto specifico mandato dal Coordinamento Regionale dei difensori civici della regione del Veneto che ho il privilegio di presiedere, contestare puntualmente le affermazioni. E' certamente vero che i difensori civici sono, nel nostro Paese, poco conosciuti, ma ciò è dovuto al fatto che, a differenza del resto d'Europa, poco o nulla ha fatto il nostro legislatore per compiutamente istituzionalizzare tale figura, reputandola ovviamente una specie di contropotere. Stante lo stato delle nostre istituzioni ovviamente non può suscitare grande entusiasmo un organo di controllo radicato sul territorio: i tacchini non hanno mai cercato di anticipare il Natale!

L'ironizzare poi sul fatto che non possa essere «il miglior amico del cittadino "in quanto" in molti casi è solo l'ennesima poltrona su cui far accomodare la politica», sono affermazioni che si commentano da sole: qualunquistiche, perché non documentate personalmente o quanto meno statisticamente; infondate, perché posso affermare che nessuno dei difensori civici regionali in carica rientri tra tali categorie, ovviamente diffamatorie per l'intera categoria. Dichiarare inoltre che il difensore civico sarebbe «difensore del potere» è quanto di più falso si possa immaginare, essendo il difensore civico, per sua intrinseca definizione, non il difensore del potere, ma colui che tutela i cittadini «contro il potere», salvo ovviamente un clamoroso quanto difficile tradimento del proprio mandato.

Non corrisponde poi assolutamente al vero che i compiti e i poteri dello stesso «non siano codificati da nessuna parte»; al contrario tutti gli statuti comunali, le leggi regionali, e quelle nazionali definiscono puntualmente gli ambiti, le competenze e i poteri dei difensori civici, alcuni dei quali veramente pregnanti: basti pensare alla garanzia del diritto di accesso agli atti amministrativi, in alternativa al ricorso ai tribunali amministrativi, e l'esercizio dei poteri sostitutivi qualora la pubblica amministrazione non ponga in essere atti obbligatori per legge.

Per concludere, il danno arrecato all'Istituzione che ogni giorno, gratuitamente e tempestivamente, assiste migliaia di cittadini nei loro diuturni e spesso confliggenti rapporti con la pubblica amministrazione, oltre ad essere grave e, per i motivi suddetti, ingiustificabile, svilisce e addirittura rischia di vanificare le risorse e gli sforzi profusi per far conoscere e apprezzare dai naturali fruitori, e cioè i cittadini, una Istituzione che certamente oggi è considerata insostituibile per la tutela e garanzia, non giurisdizionale, dei diritti.
Avv. Vittorio Bottoli, Difensore civico della regione del Veneto.


Certo, ci sono anche difensori civici che fanno il loro dovere e funzionano bene. Ma resta il fatto che sono in pochi a rivolgersi a loro. E che a nominare il controllore è il controllato.
Lorenzo Salvia



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martedì 8 aprile 2008

Il difensore civico. La fine di un'illusione

Articolo del Corriere della Sera pubblicato il 4 aprile 2008. Ha perso potere, non tutela più i cittadini.



Potrebbe essere il miglior amico del cittadino. Un po' consigliere, un po' moderno tribuno della plebe: un aiuto nella quotidiana lotta contro anagrafe, asl, provveditorato, e tutte le magagne di una pubblica amministrazione lenta, distratta e borbonica. E invece i difensori civici non li conosce quasi nessuno: 600 in tutta Italia, un piccolo esercito semiclandestino. Forse perché nel viaggio che dal nord Europa lo ha portato fino in Italia il difensore civico ha cambiato faccia. Altro che miglior amico del cittadino. In molti casi è solo l'ennesima poltrona su cui far accomodare la politica, una sala d'attesa per onorevoli trombati, una casella per far quadrare i conti nel pallottoliere della lottizzazione.

Scelto dalla politica, parte integrante della burocrazia. Difensore del potere, delle sue logiche non sempre logiche ma non di chi le subisce. E allora nessuna sorpresa se pochi sanno che esistono e pochissimi si rivolgono ai loro uffici.Invenzione svedese di inizio '800, il difensore civico è arrivato in Italia nel 1974, in Lazio, Liguria e Toscana. Oggi c'è in più di 500 Comuni, su totale di 8 mila, in quasi tutte le province che sono un centinaio, e nella maggioranza delle Regioni con l'eccezione della Sicilia, che non ci pensa proprio, e poi di Calabria, Puglia e Molise che l'hanno previsto nello statuto ma non l'hanno mai nominato.

Servono a qualcosa? I loro compiti e poteri non sono codificati da nessuna parte, e questo è già un primo problema. Possono avere una funzione di stimolo della pubblica amministrazione: chiedono informazioni a tutti gli uffici, che sono tenuti a rispondere entro 30 giorni, anche se molti sforano (non c'è sanzione) oppure si tengono sul vago. Possono richiamare i funzionari che hanno sbagliato con i decreti di cattiva amministrazione che però sono una vera rarità. Ma il loro campo d'azione non si ferma ai singoli casi e può arrivare a cambiare anche le regole. Il divieto di usare i cellulari nelle corsie degli ospedali, la comunicazione preventiva di bocciatura che le scuole fanno prima della pubblicazione dei quadri: sono piccole novità introdotte proprio dopo una loro segnalazione.

Eppure a guardare i dati sulle pratiche aperte dai loro uffici, il bilancio è quello di un fallimento. Solo 281 richieste presentate in un anno al difensore civico della Regione Campania, 318 nel Lazio. Meno di una al giorno, meno di una ogni 200 mila abitanti. E se al Nord i numeri salgono un po', la sostanza non cambia. Anche a Varese, città in cima alla classifica generale, il rapporto tra numero di domande presentate e numero di abitanti si ferma ad un misero 0,58%. È vero, non c'è bisogno di una segnalazione formale e quindi non tutta la loro attività lascia tracce in queste tabelle: basta una telefonata, una mail, il difensore può muoversi anche d'ufficio magari sulla base di un articolo di giornale.

Ma ha senso mantenere in piedi strutture del genere — con un compenso che può arrivare fino a 100 mila euro lordi l'anno nelle città più grandi — se questo è l'impatto che hanno sulla vita di tutti i giorni? «In effetti — spiega Giuseppe Fortunato, presidente dell'Associazione nazionale difensori civici, e componente del garante per la privacy — non abbiamo avuto il successo sperato. E ormai siamo arrivati ad un bivio, o si cambia o si muore». I problemi sono due, secondo Fortunato: «In molti casi il difensore civico non viene considerato autonomo dal potere politico e quindi il cittadino non si fida ».

Sospetto fondato, basta vedere come viene nominato. Quasi sempre a sceglierlo è il parlamento locale: il consiglio regionale per il difensore regionale, il consiglio provinciale per il difensore provinciale, e così via. Non viene richiesto un titolo specifico ma una generica «competenza giuridica». Sono pochissimi i casi in cui viene scelto in base ad una graduatoria per titoli. E le conseguenze le riconosce lo stesso Fortunato. «Molto spesso il difensore civico finisce per avere un atteggiamento troppo vicino alla pubblica amministrazione e al potere politico. E allora tanto vale nominarlo assessore, magari alla trasparenza, ma non prendiamo in giro la gente. Credo che sui 600 difensori italiani non più di un centinaio interpretino in modo corretto il loro ruolo. Buona parte degli altri finiscono per essere schiavetti del potere».

E se lo dice lui, che li rappresenta, c'è da credergli. Ricca di piccoli difensori locali, l'Italia è l'unico Paese tra i 25 dell'Unione europea a non averne uno nazionale. Più di 400 associazioni — da quelle dei consumatori agli ambientalisti — hanno firmato un appello al Parlamento per chiederne l'istituzione. Si tratta solo di aggiungere un altro posto a tavola? «No — risponde Fortunato — sarebbe un salto di qualità, riusciremmo a diffondere la cultura civica nel nostro Paese». Ecco, la cultura civica.

La leggenda racconta che l'idea del difensore civico mosse i primi passi in Svezia all'inizio del '600 dopo il naufragio del Vasa. Il vascello andò a fondo appena fuori dal porto di Stoccolma perché il re Gustavo non aveva ascoltato i consigli dei progettisti e fece piazzare a bordo troppi cannoni, addirittura 64. Anche il re sbaglia, capirono gli svedesi: l'autorità non è assoluta, può essere messa in discussione. Quattrocento anni dopo gli effetti si vedono. Nel 2006 Lars Danielsson, braccio destro del premier svedese, si è dimesso perché il difensore civico nazionale ha criticato il suo comportamento durante i soccorsi per lo tsunami in Asia. Da noi? Immaginiamo (perché non accade quasi mai) che un difensore richiami un dipendente pubblico: l'unico risultato sarebbe una risata con i colleghi al bar.


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venerdì 7 marzo 2008

Il bilancio è strumento di democrazia

"Un bilancio pubblico è la cartina di tornasole dell’efficienza e nello stesso tempo, se comprensibile, di una democrazia efficiente. Efficienza e democrazia efficiente sono il succo dell’alta politica intesa come arte e attività nobile. Ma sono anche, e soprattutto, due prospettive grazie alle quali si superano i luoghi comuni dell’antipolitica con un esame sul terreno dei risultati di istituzioni rette da forze politiche". (dr. Federico Sassoli, Presidente Fondazione Civicum).


L’obiettivo di un’Amministrazione trasparente che deve illustrare un bilancio ai propri cittadini, è quello di trasformare un documento, che per sua natura è composto da centinaia di pagine fitte di numeri e di commenti, in qualcosa di molto più semplice: quei numeri devono necessariamente essere “riscritti” per far capire al cittadino cosa il Comune ha fatto e cosa sta facendo. In sostanza bisogna trasformare i numeri generati dalla contabilità in dati immediatamente interpretabili che riguardano le politiche pubbliche, elementi questi che – al di là degli aridi numeri del bilancio - interessano davvero il cittadino contribuente. E’ indispensabile, poi, poter confrontare i dati del bilancio con quelli di altre amministrazioni: sapere che si spendono 100 euro è di per sé informazione insufficiente, ma la notizia diventa significativa quando è raffrontabile e raffrontata con bilanci di realtà diverse dalla propria. Le informazioni più rilevanti del bilancio sono sostanzialmente due: da dove arrivano i soldi del Comune (tasse, tariffe, trasferimenti ecc), e quali sono le politiche principali in cui il Comune ha investito ed investe (spese correnti, investimenti). Altri punti importanti si riferiscono direttamente alla “macchina comunale”. Nella sostanza, si tratta di capire se l’organizzazione del Comune è efficacemente strutturata per poter prevedere l’evoluzione delle dinamiche finanziarie future. A questo proposito, il bilancio deve informare i cittadini sulla quantità di risorse che vengono assorbite direttamente dall’autogestione dell’ente, e quante sono le risorse che invece vengono effettivamente utilizzate per i servizi forniti al cittadino. (Liberamente tratto da un documento del prof. Giovanni Azzone, Prorettore del Politecnico di Milano).

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giovedì 28 febbraio 2008

Gli incassi dei Comuni

Articolo di BresciaOggi del 21 gennaio 2008.


Dal 2002 al 2007 più che raddoppiata l’addizionale sull’imposta sul reddito, l’Irpef. Volano gli incassi dei Comuni


Volano gli incassi fiscali dei Comuni: dal 2002 al 2007 l’addizionale Irpef locale è più che raddoppiata, segnando un aumento del 108%. Uno sprint che fa il paio con la volata delle entrate territoriali complessive: tra addizionali Irpef regionali e comunali e Irap, i cittadini lo scorso anno hanno pagato oltre il 70% in più di tasse rispetto a sei anni prima. È quanto risulta dagli ultimi dati sulle entrate fiscali pubblicati dalle Finanze.

In tutto il 2002 con le addizionali Irpef i Comuni avevano incassato poco più di un miliardo di euro. Se si compara l’incasso di gennaio-novembre 2007 (2.070 milioni di euro, ultimi dati disponibili) con quello del corrispondente periodo del 2002 (993 milioni di euro) l’aumento arriva al 108,4%. Non male anche la performance dell’addizionale regionale Irpef e vola anche l’Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive. Il 2002 si era chiuso a quota 32 miliardi di euro, mentre a novembre 2007 già si era arrivato ad un incasso di 39,6 miliardi di euro; 17 miliardi di euro in più. Balzo in avanti anche nel solo ultimo anno: l’addizionale Irpef per i Comuni è cresciuta del 42,5%. Il 2008 si preannuncia un’altra annata di aumenti: tra i Comuni che hanno già deliberato sulle addizionali, 1 su 3 ha deciso un incremento.



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mercoledì 27 febbraio 2008

Dopo le consultazioni, faremo quello che ci pare

Stralcio dell'articolo di Martin Andrew pubblicato su The Guardian il 21 febbraio 2008. Il “dialogo” con gli abitanti sulle grandi opere sembra risolversi in una giustificazione di decisioni già prese.


Le consultazioni sono state una delle principali caratteristiche degli anni di Blair-Brown. Si legano a Tony Blair, al suo “grande dialogo”, alla sua “grande tenda”. Ma i più sarcastici sostengono che avvengano solo perché poi il governo sia in grado di far precedere agli annunci politici più difficili le rassicuranti parole “Dopo ampie consultazioni …” Ce ne sono al momento circa 500 l’anno, e nel 2007 si è arrivati alla reductio ad absurdum quando è stato pubblicato il documento Effective Consultation, ovvero una consultazione sulle consultazioni.

La risposta del pubblico rivela che la “fatica mentale della consultazione” è una cosa che si sta affermando, si teme che le domande poste siano troppo tecniche, semplicemente irrilevanti, e in generale che le risposte saranno comunque ignorate. Un aspetto ben descritto dall’umorista americano Ambrose Bierce nel suo Devil's Dictionary, che definisce il verbo “ consultare” come: “chiedere l’approvazione altrui a qualcosa che si è già deciso”. Il che ci porta a un caso di consultazione importante che si conclude questa settimana: quello sui progetti per una terza pista e l’ampliamento dell’aeroporto di Heathrow. [...]

Quasi 250.000 persone che abitano vicino all’aeroporto hanno risposto alle domande. Entrando nella sala consultazione ho visto un uomo – un membro del pubblico in carne e ossa – che leggeva una delle domande, aggrottando la fronte. “Un momento” diceva. “Qui si chiede: Sino a che punto lei è d’accordo con la proposta? E nel caso si costruisse una terza pista a Heathrow, essa dovrebbe accompagnarsi a nuove strutture di terminal passeggeri?”. Ha sollevato gli occhi mentre rifletteva concentrato. “Ma io non la voglio, la terza pista a Heathrow!” ha concluso. [...]


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venerdì 1 febbraio 2008

Franciacorta a lezione di sviluppo sostenibile

Articolo di BresciaOggi del 1.2.2008



Sabato 2 febbario 2008 dalle 9.30 alle 12.30 all’Iseolago Hotel di Iseo, si conclude il percorso del «Progetto Franciacorta Sostenibile», avviato nello scorso giugno dalla Fondazione Cogeme onlus con 20 comuni franciacortini e il patrocinio degli Assessorati al Territorio della Provincia e della Regione. Obiettivo del progetto è fondamentalmente quello di diffondere, a livello operativo tra i tecnici e gli amministratori locali, la conoscenza delle procedure di Valutazione ambientale strategica (Vas). Questo allo scopo di costruire un quadro di priorità in campo ambientale da utilizzare per la redazione degli strumenti di Piani di governo del territorio rispettosi del paesaggio e del territorio, con particolare riferimento alla realtà della Franciacorta. Il progetto, la cui direzione è stata affidata a Maurizio Tira, professore ordinario di tecnica e pianificazione urbanistica dell’Università di Brescia, già consulente urbanistico del Comune di Desenzano per la redazione del Piano regolatore generale e per il parco sovracomunale delle colline moreniche, ha consentito di individuare alcuni indicatori ambientali condivisi.

Il tutto partendo dalle priorità fissate dagli amministratori locali sarà illustrato nel corso dell’incontro cui parteciperanno oltre ai venti comuni e alla fondazione Cogeme, l’assessore al Territorio, parchi e Via della Provincia, Francesco Mazzoli e il direttore Cesare Bertocchi, l’Assessore al Territorio e urbanistica della Regione Davide Boni e il Direttore generale Mario Nova, che intendono utilizzare l’esperienza come modello di riferimento per Comuni medio-piccoli.



Opere senza programmazione

Opere senza programmazione. Intervista a Massimo Gallione, vicepresidente del Consiglio nazionale degli architetti - Articolo pubblicato su Italia Oggi il 30/01/2008.



In paesi come Francia, Spagna e Inghilterra se un'opera da realizzare deve durare in media sei anni, due sono dedicati alla programmazione, due alla progettazione e due anni alla realizzazione. Al contrario in Italia ci vorrebbero almeno cinque anni e mezzo per la realizzazione, sei mesi per la progettazione e nessun mese per la programmazione». E' partito da questa constatazione Massimo Gallione, vicepresidente vicario con delega ai concorsi e lavori pubblici del Consiglio nazionale degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori, nel presentare il «Manuale di buona pratica. La programmazione dei lavori pubblici. Il concorso di progettazione», che verrà presentato al congresso nazionale del Cnappc in programma a Palermo dal 7 al 9 febbraio. Lo studio ha analizzato il Codice degli appalti, i due decreti correttivi e il regolamento.


Domanda.
Quali sono i motivi che hanno portato alla realizzazione del manuale?
Risposta. Occupandomi nel Consiglio nazionale di aspettirelativi ai lavori pubblici si fa presto ad accorgersi che in Italia le disfunzioni non sono poche. Quando si confronta il meccanismo italiano con la macchina produttiva e amministrativa di altri paesi dell`Unione europea, si vede che le differenze sono tante, anzi troppe. Abbiamo potuto verificare le metodiche di lavoro di paesi come Francia, Germania e Inghilterra, dove la macchina amministrativa funziona bene e si hanno riduzioni di tempi e costi per la realizzazione di opere pubbliche. In Italia invece i tempi di produzione sembrano infiniti e altrettanto lo sono i costi, con relativa insoddisfazione da parte degli utenti.


Domanda.
Analizzando il manuale, viene fuori che è necessario un giusto mix di tempi tra programmazione, progettazione e realizzazione. Quali i vantaggi principali?
Risposta. Se la programmazione viene ben fatta, il costo complessivo dell'opera pubblica è inferiore a quello che di solito abbiamo in Italia. La programmazione serve proprio a capire quali sono le problematiche, le procedure che bisogna mettere in atto e le tempistiche e i costi che meglio si adattano all'opera pubblica.


Domanda.
In Europa è molto praticato il concorso di progettazione, che voi sostenete. Perché lo stesso non avviene in Italia?
Risposta. La legge europea individua proprio nel concorso di progettazione la massima espressione di concorrenza. E' praticato in tutta Europa, molto in Francia, e comunque sempre in percentuali superiori all'Italia. In Francia la programmazione dura in media due anni. In Italia è sempre esistita ed è prevista dall'articolo 128 del Codice, ma non viene quasi mai applicata. Da noi sta invece esplodendo la procedura sul prezzo più basso, che ha come unico criterio di valutazione il prezzo. Questo non è plausibile in quanto è antitetico e produce un prodotto che corrisponde ai peggiori standard qualitativi.


Domanda.
Che tipo di lavoro avete svolto per arrivare ai contenuti del manuale?
Risposta. L`importante in Italia è capire come dai principi legislativi dell'articolo 128 si potesse passare ad una pratica amministrativa da dare alle amministrazioni pubbliche. Abbiamo studiato criteri e manualistiche degli altri paesi in questo settore e abbiamo trasferito le esperienze positive di questi paesi alla luce delle norme italiane. Abbiamo chiarito il percorso che può essere considerato dal punto di vista pratico prima degli studi di fattibilità, dei contenuti e delle modalità, e per una miglior comprensione del documento preliminare alla progettazione. Non è solo un libro di principi, ma intende dare indicazioni pratiche e di lavoro, in grado di suggerire i percorsi da scegliere. La seconda parte del libro è dedicata ai concorsi di progettazione, perché in Italia anche in questo settore c`è una metodica non delle migliori. I bandi non vengono redatti al meglio e, mancando la programmazione all'origine, i risultati sono spesso deludenti.


Domanda.
Qual è la vostra opinione sul Codice degli appalti?
Risposta. Il Codice ha punti poco perfetti. Un problema è dato dal fatto che in Italia ingloba non solo i principi delle legge europea, ma è ampliato a tutte le problematiche dei lavori pubblici, come per esempio i sistemi di realizzazione del lavoro o i collaudi. È stato fatto un lavoro grande, ma senza un confronto con le parti tecniche che ha dato luogo ad una serie di imperfezioni e incomprensioni. Nell'ambito della direttiva europea, che dava dei principi condivisibili da parte nostra, occorreva andare verso una certificazione delle procedure, cosa che invece non è avvenuta. Sulla qualità del prodotto il Codice non individua strade prioritarie in modo sufficiente e che volta per volta si adattano alle esigenze di un ente pubblico. Le pone tutte sulle stesso piano e, altro aspetto, non tiene sufficientemente conto della qualità complessiva della progettazione dei tempi e dei relativi costi. Dunque non solo non si risolvono i problemi, ma a volte purtroppo vengono complicati. In Italia c`è poca attenzione alla progettazione e troppa attenzione agli interessi dei realizzatori. Aspetto che non pone in un sostanziale equilibrio tutte le parti che devono operare nell'ambito dei lavori pubblici.

martedì 27 novembre 2007

I Sindaci e il tesoro da 3 miliardi di euro l’anno

Di Gianni Trovati – Articolo de “Il Sole-24 Ore”



Per i Comuni le concessioni edilizie sono un tesoro. Nel 2005, ultimo anno su cui sono disponibili tutti i consuntivi per elaborare conti aggregati, lo scrigno ha riservato ai sindaci 3,2 miliardi di euro, cioè il 41% in più di quanto conteneva 5 anni prima. Ad offrire di più sono i cittadini del Trentino alto Adige, che nel 2005 hanno versato per questa voce più di 100 euro (il doppio della media nazionale), seguiti da toscani ed emiliani, mentre dall’altro capo della classifica friulani e calabresi se la sono cavata con poco più di 20 euro a testa.

Su questo tesoro ad ogni Finanziaria si gioca un braccio di ferro tra Comuni e Governo. Con un rituale preciso lungo il quale dapprima l’Esecutivo evita la proroga che concede agli enti di utilizzarne una quota per finanziare le spese correnti, e poi la concede in varia misura per soddisfare le rchieste pressanti delle Autonomie.

Per quel che riguarda il 2008 ad oggi siamo a metà del balletto. Il Ddl Finanziaria licenziato dal Senato concede la possibilità di destinare alle spese correnti il 25% dei proventi, cioè la metà rispetto all’anno scorso (quando un’altra fetta del 25% poteva essere dedicata alla manutenzione ordinaria del patrimonio immobiliare dell’ente). Di fatto rispetto al 2006 e 2007 (nel 2005 la quota svincolata era del 75%) si tratta di un riposizionamento di oltre 800 milioni di euro, che devono imboccare la strada obbligatoria degli investimenti.

Ma il balletto non è finito, perché a Montecitorio i Comuni tornano alla carica con un emendamento che chiede di replicare il regime previsto l’anno scorso, e di congelarlo fino al 2010. Anche per dare ai bilanci pluriennali un grado di certezza che la continua altalena delle proroghe (non solo su questo tema) ha sempre negato, minando alla radice il significato stesso dello strumento.

Le continue deroghe contrastano con un principio basilare delle contabilità, non solo pubblica, che vieta di finanziare le spese ricorrenti con entrate di carattere straordinario. Un principio, in realtà, che per i proventi da concessione edilizia incontra una fortuna alterna nella stessa normativa, che a questi proventi assegna una collocazione in bilancio più che incerta.

All’origine del problema c’è il Dpr 380/2001 che ha trasformato il via libera comunale alla costruzione da concessione a permesso, e ha sistemato il relativo introito in entrate tributarie del Titoli I. Il Siope, cioè il sistema informatico con cui la Ragioneria generale dello Stato monitora i conti locali, lo ha riportato più coerentemente tra le entrate in conto capitale del Titolo IV (che, quindi, non possono essere utilizate per le spese correnti).

Ma è anche da segnalare che la Commissione Bilancio al Senato sta discutendo una risoluzione per collocare tout court i proventi tra le entrate correnti. A sottolineare la sua importanza nell’equilibrio dei bilanci c’è anche l’attenzione crescente riservata a questa entrata da parte della Corte dei Conti. Che nelle relazioni annuali sui bilanci chiede ai comuni le serie storiche per evitare che qualche ente ritocchi artificiosamente la voce per far quadrare conti riottosi al pareggio, e che nel 2007 (Dlgs 113) è chiamata a vigilare con le procure regionali su tutte le occasioni in cui gli enti concedono a privati lavori a scomputo sotto la soglia comunitaria.



lunedì 26 novembre 2007

Il concetto di eccellenza nel governo di un Comune

di Oriano Giovanelli, Presidente di Legautonomie


- Prima breve premessa. Parlare del concetto di eccellenza significa entrare in un campo di valutazione in cui l’elemento soggettivo è ancora molto grande rispetto a parametri di valutazione oggettiva; questo rappresenta già un primo problema perché sarebbe di contro importante far crescere un sistema di valutazione riferito a parametri condivisi, confrontabili e verificabili; penso alla produzione di ricchezza, alla coesione sociale, alla qualità ambientale, ai tempi di risposta, all’economicità delle gestioni e così via. Però ancora non è così ed è a mio avviso un segno di arretratezza, né possono supplire a questa mancanza le rilevazioni pur interessanti che annualmente vengono fatte di diverse testate giornalistiche. Quindi le considerazioni che farò saranno assolutamente soggettive.

- Seconda breve premessa. Quando parliamo di eccellenza ci riferiamo ad un’idea di performance amministrativa dove c’è anche il peso di una forte componente di azione politica, il confine fra politica e amministrazione è del resto così labile e mutevole che bisogna mentalmente assumere un atteggiamento dinamico, non due linee parallele ma due linee sinuose che si intersecano e si allontanano, in questa sede comunque non diamo un giudizio politico in senso stretto. Può esserci un Sindaco politicamente eccellente perché amato dai suoi concittadini e poi un risultato amministrativo mediocre. La politica a volte segue percorsi che sfuggono alla razionalità; quindi non parliamo di questo.

- Il concetto di eccellenza nel governo di un Comune ha subito negli ultimi anni una forte evoluzione, direi un cambio radicale. Fino ai primi anni ’90 si potevano ascrivere sotto la dicitura “eccellenti” quei comuni che, pur nelle diversità di dimensione e collocazione geografica, si impegnavano su temi ricorrenti. Erano quelli che attrezzavano il loro comune con servizi estesi e di qualità nel campo dell’educazione all’infanzia, nel campo del sociale, case di riposo per gli anziani, centri diurni per i portatori di handicap ecc. e sapevano spingersi anche oltre le strette competenze previste dalla legge per affrontare nuove domande poste dalla società, dalle famiglie, dalle persone.

Erano i Comuni che si dotavano di buoni piani regolatori per il governo della forte spinta alla crescita urbana, che lavoravano per evitare che i nuovi quartieri nascessero privi dei principali servizi e di luoghi di aggregazione. Erano comuni attenti al ruolo della cultura nella città. Erano i comuni che attrezzavano in modo efficace aree industriali e artigianali per andare incontro alla domanda delle imprese o per attrarre imprese nel loro territorio. Erano i comuni delle municipalizzate per la gestione del servizio gas, nettezza urbana, trasporto pubblico, servizio idrico, farmacie.
Erano comuni animati dalla volontà di fare, che riuscivano a motivare le strutture tecniche, per lo più selezionate per via politica, e a dare risposte in tempi decorosi. Erano i comuni che puntavano alla coesione sociale anche attraverso forme di coinvolgimento dei cittadini, di partecipazione, di informazione.

Ecco, questi mi sembrano i parametri che hanno segnato la crescita del ruolo dei comuni e ci hanno consegnato un patrimonio di grande valore. Un patrimonio cresciuto e caratterizzatosi grazie ad una qualità della spesa delle risorse messe a disposizione dallo Stato centrale e ad una azione che si dipanava prevalentemente all’interno dei confini amministrativi del comune.

- Oggi le condizioni interne agli enti e soprattutto nella società sono cambiate in modo così forte che anche quelle amministrazioni comunali che hanno nel passato raggiunto risultati positivi, se non interpretano adeguatamente le novità rischiano di scivolare verso una pur gloriosa autoconservazione e pian piano arretrare.
Provo a citare alcune di queste novità. Innanzitutto il fatto che oggi un comune mediamente deve contare sul 70% di risorse proprie e quindi non da trasferimenti statali o regionali. Questo significa che una amministrazione non si qualifica più solo per la qualità della spesa ma anche per la qualità del prelievo tributario e fiscale. E’ chiamata a porsi il problema dell’equità, è chiamata a fare i conti con la razionalità del prelievo rispetto al quale i cittadini misurano le prestazioni e i servizi, è chiamato a porsi il problema dell’evasione. E’ chiamato a porsi il problema della qualità della pianificazione delle risorse a fronte degli obiettivi.

E’ chiamato a prestare molto di più attenzione alla rendicontazione, a dare cioè ai cittadini gli strumenti di valutazione per renderli compartecipi dei risultati e delle difficoltà. Un esempio è l’avanzo di amministrazione. Se in passato produrre avanzo sulla spesa corrente a fronte dei trasferimenti dello Stato poteva voler dire presentarsi ai cittadini con la buona novella di avere disponibilità di risorse “fresche,certe e immediate” da riconvertire in investimenti, oggi presentarsi a cittadini con un avanzo vuol dire prestarsi alla critica di aver prelevato più del necessario e del non essere stati capaci di spendere per gli obiettivi per i quali quelle risorse erano state chieste ai cittadini stessi. Un comune che produce avanzo di amministrazione non è più eccellente.

Un altro esempio si può fare sui servizi educativi o sociali. Difendere i servizi esistenti è certamente una operazione importante, ma se questi servizi esistenti non soddisfano più la quantità della domanda o la qualità della stessa a fronte della presenza di bambini immigrati da inserire negli asili nido o nelle scuole materne, o non riesce a sostenere l’assistenza domiciliare o i servizi per i non auto sufficienti, si apre un problema, si crea un giudizio negativo. E non basta al cittadino che il comune si trinceri dietro alla scarsità delle risorse se a rimaner fuori dai servizi sono proprio quelli che ne avrebbero più bisogno.

Quello che il cittadino si aspetta è la capacità di rivedere i servizi, di industriarsi cercando forme di gestione nuove, comunque che si arrivi a dare una risposta o si dimostri un dinamismo nel cercarla. Allora se in passato il sistema pubblico dei servizi era un indiscutibile fattore di eccellenza, oggi conta molto meno se quel sistema dei servizi è tutto pubblico, se coinvolge il terzo settore, o vede l’intervento del privato “accreditato”. E’ il risultato rispetto ad una domanda nuova, il rapporto fra tariffe-certezza-qualità del servizio che qualifica l’eccellenza anche in questo settore più della capacità di conservare l’esistente.

Anche per quanto concerne il governo del territorio siamo di fronte a novità consistenti. Fare un buon piano regolatore continua ad essere una azione virtuosa, ma quando i problemi infrastrutturali, ambientali, delle aree produttive, della collocazione dei grandi servizi commerciali, vengono concretamente messi sul tappeto e vissuti criticamente e con sofferenza dai cittadini ci si accorge che quello strumento è inadeguato, perché i problemi scavalcano i confini amministrativi e alle persone e alle imprese interessa la loro soluzione e non il confine di competenza del Sindaco e del Consiglio Comunale. Allora l’eccellenza in questo caso sta nella capacità di farsi protagonisti di un governo territoriale di area vasta che fronteggi le novità e non condanni i cittadini a subire gli effetti di una crescita urbana che deborda dai confini comunali, pur in presenza di un ottimo piano di governo del territorio.

Per non dire dei servizi a rete. Dove sta l’eccellenza se i servizi gestiti anche in modo scrupoloso dalle ex municipalizzate non reggono alla prova dell’economicità, danno luogo a incrementi tariffari forti, si dimostrano inadeguati rispetto alla capacità di produrre almeno gli utili necessari a garantire gli investimenti necessari all’ estensione delle reti o una adeguata manutenzione di quelle esistenti; ed è più eccellente un comune che si impegna per stare dentro alle dinamiche di quello che inevitabilmente diventa sempre più un mercato aperto o quello che difende caparbiamente la propria dimensione municipale?

Ma anche tutte queste considerazioni non esauriscono il tema della sfida che un comune deve affrontare per essere eccellente. Ciò che viene chiesto oggi ad un comune va ben al di là del fare anche in modo diverso le cose che ha sempre fatto. Il terreno di giuoco è completamente nuovo.

Due esempi le politiche per lo sviluppo e l’innovazione tecnologica. Che il nostro paese ha problemi a crescere economicamente e a competere nel nuovo scenario globale è, purtroppo, noto a tutti. Che per uscire da questa situazione assieme alle politiche comunitarie e a quelle statali siano sempre più rilevanti le politiche locali è noto almeno agli addetti a lavori. Quello che è meno noto è come si fa a far svolgere ad un comune un ruolo attivo per lo sviluppo di un territorio, quando non basta più evidentemente assecondare la domanda di aree artigianali e industriali, o creare un contesto socio culturale favorevole all’impresa.

I comuni eccellenti questo in passato lo hanno fatto per lo più con intelligenza sia laddove c’era la grande industria, sia laddove sono nati i “distretti”, lavorando prevalentemente all’interno del loro territorio, con un rapporto diretto con gli imprenditori e facendo leva pressoché esclusivamente sulla propria macchina amministrativa, in considerazione del fatto che ciò che a loro veniva chiesto era nella loro disponibilità.

Nella crisi attuale ripetere quel metodo di lavoro significa andare verso la sconfitta certa. Detto che approfondire questo tema sarebbe troppo lungo in questa sede, il fatto è che al comune per agire positivamente sullo sviluppo di un territorio vengono chieste più cose, diverse da quelle del passato e che non sono nella sua cassetta degli attrezzi ma deve andare a cercarsele mettendosi in rete con il territorio e con realtà che pur non facendo parte del territorio possono essere funzionali allo sviluppo del territorio stesso.

Se vuole che le sue decisioni siano efficaci, producano risultati deve condividere prima l’analisi, gli obiettivi e le azioni per perseguirli con gli attori fondamentali che animano il territorio, che si tratti di altre istituzioni, di università, camere di commercio, soggetti privati, mondo associativo.
Allora l’eccellenza non si misura più sulla qualità delle decisioni proprie del comune ma da come riesce ad orientare, a far decidere un’intera comunità a seguire una certa strada piuttosto che un'altra, a valorizzare tutte le risorse effettivamente disponibili che spesso sono molte di più di quelle che siamo portati a credere.

Se lo sviluppo dipende non più da una netta divisione dei ruoli fra azione amministrativa e azione imprenditoriale, l’eccellenza sta nel saper produrre integrazione, mettere in rete le risorse, andare tutti insieme allo scopo pur seguendo ognuno le proprie funzioni e perseguendo i propri interessi. Questa non è solo un’azione di coordinamento politico, è un’azione professionale che cambia il carattere della struttura amministrativa dell’ente e le professionalità che la compongono.

Il discorso sull’eccellenza si fa ancora più intrigante se parliamo di innovazione tecnologica, cioè di quella potenzialità senza pari che in tempo reale ci introduce in ogni piega della dimensione locale e ci proietta in un mondo che improvvisamente sta dentro ad uno schermo. Ricordo ancora quando nei primi anni ’80 i comuni eccellenti meccanizzarono l’anagrafe e così tagliarono nettamente i tempi di risposta per quel tipo di servizi. Sembra preistoria.

Che fa un comune eccellente oggi di fronte alle nuove tecnologie? Fa un sito, un portale, favorisce l’accesso ai documenti dell’amministrazione, mette in rete la possibilità di accedere ad alcuni servizi (sono ancora pochissimi quelli che lo fanno davvero), apre forum on line di discussione con i cittadini sulle questioni della città, magari implementa con le potenzialità delle tecnologie un percorso di bilancio partecipato, mette in rete il piano di governo del territorio, fa lo sportello unico per le attività produttive, cambia il modo di lavorare e di integrarsi dei propri uffici, si mette in rete con gli altri uffici della pubblica amministrazione.

Se facesse tutto questo in tanti farebbero oohh!!!! E non solo i bambini. Eppure, come è ben comprensibile, saremmo ancora lontanissimi dall’eccellenza. Un comune non può disinteressarsi per le cose dette prima dell’arretratezza tecnologica delle imprese e di norma il comune sa che le imprese da sole non c’è la fanno soprattutto quando sono di dimensioni piccole e piccolissime. Il comune non può disinteressarsi della promozione nelle reti lunghe della globalizzazione delle virtù e delle opportunità che il suo territorio offre ed è ad esempio un bel problema se le sue strutture alberghiere del territorio non sono al passo con i tempi in tema di nuove tecnologie.

Il comune non può non occuparsi di fare dei propri cittadini una comunità tecnologica, che non è una forma di abbrutimento, ma la rimozione di una delle più pericolose barriere alla piena esigibilità di diritti e opportunità. Il comune non può non sapere che se vuole una città giovane deve portarsi al livello dei giovani nella capacità di percepire e agire le potenzialità delle nuove tecnologie, negli Stati Uniti e credo non solo è un percorso che comincia alla scuola materna. Le nuove tecnologie allontanano davvero come mai prima la frontiera dell’eccellenza, una bella sfida davvero che vale la pena raccogliere.

Ecco, sulla base di queste considerazioni e tante altre potrebbero essere svolte, ho cercato di mettere a fuoco come cambia il concetto di eccellenza e chi si ostina a fare le stesse cose sempre nello stesso modo anche se ha un passato glorioso alle spalle rimarrà indietro, per questo sono convinto che il futuro è di chi cambia.

mercoledì 14 novembre 2007

Programmazione e controllo

Stralcio di un intervento di Giuseppe Farneti, Professore di Economia Aziendale nell’Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Facoltà di Forlì




Gli enti locali devono affrontare i problemi che sono posti dalla Legge Finanziaria 2008. Un anno fa le tematiche erano simili. Presumibilmente lo saranno anche in futuro. Esse si collegano comunque a un argomento di fondo. Quello che fa riferimento alle risorse, sempre più limitate a fronte di bisogni sempre maggiori.

La strada da seguire, ne siamo convinti, trovando nella realtà un continuo riscontro, è solamente una. Chiara e anche agevole. Ma essa esige che la politica, mettendo in discussione molti comportamenti rituali e, comunque, atteggiamenti che con il quadro normativo attuale non dovrebbero essere più compatibili, scopra il “valore”, per realizzare bene le proprie finalità, del rinnovamento amministrativo-gestionale. Quel rinnovamento che le riforme di questi ultimi diciassette anni hanno introdotto. Un numero limitato, ma crescente di enti, ci sta provando, talora con successo.

Per chi scrive i concetti risolutivi fanno riferimento all’attività e alla strumentazione contabile della programmazione e del controllo. La programmazione serve a razionalizzare il processo decisionale in condizioni d’incertezza, come appunto si sta verificando. Il controllo ne è il completamento e riferisce obiettivi e risultati ai responsabili. La programmazione in particolare, per essere praticata, deve, prima, essere compresa e voluta dalla politica. Poiché serve alla politica: per realizzare le sue promesse, per comunicarlo, per promuovere il consenso.


I suoi strumenti non sono un fatto tecnico, o lo sono solo apparentemente. Esprimono invece, contemporaneamente, un dovere e una opportunità. Fronteggiare la finanziaria oggi, i suoi problemi, non deve significare la ricerca di come fronteggiare le urgenze, probabilmente pagando un prezzo in termini di minore efficienza e/o minore efficacia. Programmare le proprie politiche ha invece il significato opposto. Perché vi sono azioni, politiche appunto, che si possono solo costruire sul medio e lungo termine, in una visione strategica. Tale visione è invece assente allorché le decisioni affrontano i problemi quando si presentano, in condizioni di necessità, senza averne, prima, programmata la soluzione.

Purtroppo, il quadro delineato, che è anche il quadro “legale”, è molto lontano dall’essere concretamente e soddisfacentemente applicato. E’ una consapevolezza, questa, assai diffusa. Ma va approfondita, nei suoi concreti modi di essere. Dalla sua comprensione, che si va facendo strada, può così nascere la spinta a cambiare. [...]


Ma quali sono le cause della mancanza di programmazione e controllo?

1)il ruolo preponderante, sia come causa principale che come seconda causa, della mancanza di stimoli ad innovare e della variabilità ambientale;
2)la mancanza di conoscenze tecniche da parte degli amministratori e dei dirigenti/dipendenti;
3)con pari intensità rispetto al punto precedente, il condizionamento espresso dalla politica;
4) la non utilità di conoscere i risultati conseguiti.


Vi è da riflettere, profondamente. Da esse si comprende perché la politica non riesca spesso a migliorare i propri risultati puntando sull’efficienza, dunque a parità di risorse. Perché sia anche disattenta, talora, circa i risultati (l’efficacia), che sono quelli che interessano al cittadino.


Cosa fare? Ci limitiamo in questa sede ad alcune sottolineature, che dovrebbero essere parte della cultura che gli enti dovrebbero esprimere. Il primo punto, circa la mancanza di stimoli, va letto insieme al terzo, circa il condizionamento espresso dalla politica. Se la politica condiziona e impone non il bene comune, ma l’interesse delle parti, ogni discorso nel merito viene vanificato. Il controllo della società civile può costituire al riguardo una forte novità. Ma esso va promosso, e proprio per questo i controlli esterni assumono un evidente significato.



lunedì 12 novembre 2007

La situazione dei Consigli negli enti locali

Stralcio di un contributo di Eugenio Scalise.



[...] Se siamo convinti sul piano politico e culturale che l’attività dei consigli è necessaria per la corretta amministrazione della cosa pubblica, al pari di quella degli esecutivi, occorre adoperarsi per favorirla, anziché limitarla o ostacolarla. Di ciò devono essere innanzi tutto consapevoli i consiglieri stessi che devono dare autorevolezza ad un ruolo che ha avuto l’investitura popolare, ruolo che non è delegabile e che se non si esercita si viene meno agli impegni assunti con gli elettori. Chiedere di poter esercitare compiutamente la funzione e di disporre degli strumenti necessari non è solo un diritto, ma anche un dovere.

Molte difficoltà lamentate dai consiglieri potrebbero essere in parte superate con lo strumento regolamentare prevedendo le modalità di organizzazione e funzionamento del consiglio e delle commissioni; l’assegnazione di mezzi, risorse, personale all’ufficio del consiglio e ai gruppi consiliari; le modalità di presentazione delle proposte di deliberazioni della giunta al consiglio e di partecipazione degli assessori ai lavori delle commissioni; le modalità e i tempi di presentazione del documento programmatico e la partecipazione del consiglio alla sua definizione e approvazione; le modalità dell’esercizio della funzione di controllo.

Altri problemi hanno necessità dell’intervento legislativo. Per quanto riguarda l’attività deliberativa si rende sicuramente necessario un intervento per dare maggiori poteri al consiglio per la predisposizione del bilancio qualora la giunta non provveda nei termini. Infatti dopo l’abrogazione dell’art. 130 della Costituzione sui controlli preventivi di legittimità e sulla nomina dei commissari ad acta occorre dare al consiglio, escludendo che possano intervenire altri organi esterni all’ente, poteri sostitutivi per non incorrere nello scioglimento.

Contestualmente andrebbe abrogata la norma che consente alla giunta l’approvazione delle variazioni di bilancio in via d’urgenza restituendo al consiglio la pienezza dei poteri in materia di bilancio e tenuto conto che ormai i consigli sono in grado di deliberare gli atti urgenti in tempi molto brevi. Occorre restituire al consiglio pienezza di poteri sui regolamenti, abolendo l’eccezione oggi prevista per il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi assegnato alle competenze della giunta. Inoltre è necessario che la legge preveda che le linee programmatiche non siano soltanto presentate dal sindaco e dal presidente della provincia al consiglio, ma siano da questo approvate.

Il fatto che molti statuti già prevedano l’approvazione da parte del consiglio non giustifica il mantenimento di una norma che priva il consiglio di una competenza fondamentale, quale quella dell’approvazione del programma di legislatura, che si può ritenere l’atto di indirizzo più importante. Sul tema della funzione di controllo occorre avviare una seria riflessione perché è la funzione che presenta le maggiori difficoltà sia per la mancanza di mezzi a disposizione che per carenze normative. Si possono fare alcuni esempi. L’interrogazione è lo strumento classico del consigliere per chiedere spiegazioni alla giunta su un determinato argomento.

La legge prevede che all’interrogazione si deve dare risposta entro trenta giorni, ma se l’assessore non risponde o risponde in modo evasivo, quali strumenti ha il consiglio per tutelare il diritto del consigliere? Se la giunta non porta avanti una proposta approvata formalmente dal consiglio o perché non vuole o perché non la ritiene prioritaria, quali poteri ha il consiglio perché quella decisione legittimamente approvata dal consiglio sia resa esecutiva? Quali poteri di intervento hanno i consigli se ritengono negativo l’operato di un rappresentante dell’amministrazione in un ente esterno o l’operato di un singolo assessore? Di fatto nessuno, se non la denuncia politica.

Se si ritiene giusto che le nomine dei rappresentati esterni e degli assessori debbano rimanere nella esclusiva competenza del sindaco e del presidente della provincia, occorre prevedere anche qualche contrappeso nei poteri del consiglio che per legge deve esercitare il controllo dell’azione amministrativa. Non potrebbe essere previsto, ad esempio, che il consiglio possa chiedere la revoca di un rappresentante esterno o di un assessore se questi fosse ritenuto incapace? Perché in presenza di una situazione critica, ripetutamente fatta presente dal consiglio con atti formali, non si deve potere intervenire senza coinvolgere necessariamente l’intera amministrazione? [...]