Di seguito uno stralcio di un editoriale dell'arch. Leandro Janni
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Scriveva Friedrich W. Nietzsche della Venezia del Settecento: "Cento profonde solitudini, insieme formano la città di Venezia. Questo è il suo incanto". Un'immagine per gli uomini del futuro. Nel mondo contemporaneo, bellezza e verità, parole assolute, eccessive, per certi versi inquietanti, sono state sostituite dai termini meno impegnativi, più comprensibili, di immagine e successo.
A certi individui piuttosto incontentabili che ostinatamente coltivano una sorta di etica del dubbio come forma di resistenza ultima, estrema, nei confronti di questa, come dire, suadente deriva di massa, spero sia data la possibilità di comunicare un ragionamento (tra i tanti possibili, naturalmente), sulla realtà che ci circonda, sulla città contemporanea, sul territorio, l'ambiente, forse anche sulla politica e la democrazia.
Per prima cosa vorrei ricordare un bellissimo e per certi versi consolatorio concetto, su cui fonda le proprie basi teoriche l'architettura della città: "I luoghi sono più forti delle persone, la scena fissa è più forte delle vicende umane". Questo concetto così affascinante e consolatorio, è stato, nell'immaginario collettivo, messo in crisi da cinquant'anni di guasti e ferite del territorio che hanno quasi cancellato i luoghi della nostra esistenza. Un territorio sicuramente mal governato su cui si è lucrato, in cui si sono sperimentati spesso i falsi miti della modernità.
La trasformazione fisica del nostro Paese, delle nostre città, è avvenuta senza un controllo politico, ma anche intellettuale, adeguato. La cultura architettonico-urbanistica, in primo luogo, non si è fatta carico dello scenario italiano, dei suoi valori, delle sue peculiarità. Non ha saputo, nella fase della ricostruzione e dello sviluppo del dopoguerra, diventare una cultura dell'innovazione e gestire in modo accettabile la gran massa di nuovi manufatti collocati sul territorio (infrastrutture, edifici, monumenti, sistemi a rete).
Oggi siamo consapevoli che la questione, l'obiettivo fondamentale deve essere convertire la quantità in qualità. Possiamo sicuramente affermare, usando, tra l'altro, un'espressione politicamente garbata, che il paesaggio, le nostre città, le campagne, le coste, registrano, insieme ai segni straordinari trasmessi dalla lunga storia passata, le storture di mezzo secolo di democrazia imperfetta. La risposta politica, per ora, è sicuramente inadeguata. Dei ritardi culturali, economici, del sistema che ha prodotto tale situazione, oggi misuriamo la rigidità, le regole disastrose, le troppe eccezioni ammesse e i loro margini angusti.
Alla fine la domanda che dovremmo veramente farci è: quale è la nostra idea di città, di politica? A me pare che gli strumenti culturali, l'impegno, le capacità e il metodo della politica, almeno per ciò che è accaduto sino ad oggi, siano alquanto insufficienti. Certamente non è assumendo comportamenti e scelte nostalgiche, di retroguardia, o di immagine, alla moda che si risolvono i veri problemi della città e del territorio.
Certamente non è la scarsa trasparenza delle istituzioni e la mancata partecipazione dei cittadini, delle forze culturali e sociali sane, ciò che può favorire un processo virtuoso di sviluppo equilibrato, sostenibile, del nostro territorio. Progettare il cambiamento, progettare la nostra vita giorno dopo giorno, significa valorizzare, attivare la presenza degli altri, di tutti i soggetti partecipanti: una rapportualità creativa ed un atteggiamento basato sul dialogo e sulla cooperazione. Una progettualità ad alto livello di integrazione, che deve essere processo, contenuto e regola della politica.
"La città che vogliamo" deve essere una città governata, abitata, amata, programmata, progettata, una città in cui funzionalità e bellezza possano ritrovare sintesi ed espressione. Solo alimentando il dibattito culturale, la coscienza collettiva, la consapevolezza di realtà alternative, è possibile avviare un reale processo di cambiamento, anche nelle realtà più marginali.
In fondo, anche se durano secoli, le città sono in realtà dei grandi accampamenti di vivi e di morti, dove restano alcuni elementi come segnali, simboli, avvenimenti. La civiltà di un popolo, di una collettività, si misura dal desiderio, dalla capacità, dal coraggio di conoscere e di riconoscere i valori, rispetto al nulla transeunte delle merci, delle immagini effimere e ingannevoli.
La civiltà universale dei nostri giorni, della contemporaneità, è paragonabile al più complesso arazzo che mai sia stato tessuto. Oggi ci rendiamo conto che la struttura portante di questo arazzo, la soggettività pervasiva e dominante, può rovinare, cancellare il disegno che vi è riprodotto. Riusciremo a separare questo disegno dalla struttura portante, dalla tessitura senza distruggere la sua straordinaria complessità?