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giovedì 15 novembre 2007

Il paesaggio come limite dei progetti

Università di Firenze - Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica.
Seminario di studi "Il paesaggio come limite del progetto, il paesaggio come limite del piano". Stralcio della relazione di Paolo Castelnovi


[…] Sotto la feconda ombra del termine 'paesaggio' hanno convissuto in questi anni interi modelli disciplinari analitici che, con ridotta o nulla comunicazione tra loro, hanno tutti esplicitato una propensione a pianificare l'oggetto della loro attenzione. Di certo risulta che, salvo forse gli studiosi di letteratura, tutti gli altri indagatori di paesaggio si sono sentiti impegnati, forse sulla base di una spinta etica, a intervenire per determinare il futuro del paesaggio. Questa pressione si avverte a partire da quelli che considerano il paesaggio, come "una costellazione abbastanza caratteristica, solidale e unitaria di ecosistemi" sino a quelli che, incrementando via via la componente culturale dell'indagine, giungono a dichiarare il paesaggio "...una porzione determinata di territorio quale è percepita dall’uomo, il cui aspetto risulta dall’azione di fattori umani e naturali e dalle loro interrelazioni", e che applicano a tale paesaggio l’impegno di "consacrarlo giuridicamente come bene comune, fondamento dell’identità culturale e locale delle popolazioni, componente essenziale della qualità della vita e espressione della ricchezza e della diversità del patrimonio culturale, ecologico sociale ed economico".

Dovrebbe risultare evidente sin dalle definizioni (che si confermano se si approfondiscono i termini del problema) che in ogni caso si sta trattando di materia viva, che impone una considerazione olistica e processuale, che affonda la propria evoluzione in dinamiche sistemiche e di lunghissimo periodo, nelle radici stesse della struttura diversificata delle regioni e delle storie dell'abitare. Dovrebbe saltare agli occhi che in ogni caso si tratta di caratteristiche all'opposto da quelle delle materie che siamo preparati a pianificare: al massimo sappiamo trattare prodotti unificati e semplici di azioni specifiche (e non di sistemi complessi), considerabili in base omogenea (per tipo o per quantità e non per diversità), disciplinabili oggettualmente o nell'atto produttivo (e non nel processo, che sia naturalmente evolutivo o politico-culturale).

Ma soprattutto si trascura che il Piano nasce per dare ordine al futuro, e che dal Paesaggio, oggi, si ascolta per lo più una richiesta di difesa di valori del passato. Sappiamo che non si tratta di una difesa nostalgica ma attiva, che il miglior futuro è quello che continua la cultura del passato, che non trattiamo di passato da museificare ma di traccia per innovare, ma comunque è certo che il primo termine del Piano del paesaggio è conservare, mentre il primo termine di tutti gli altri piani è sviluppare.

Del disagio del Piano rispetto al Paesaggio testimonia una storia infinita di false partenze, di rigidità malsopportate, di attriti tra i diversi piani settoriali o comprensivi che ci siamo provati a fare negli ultimi vent'anni, ma solo raramente viene messa in discussione l'intima incompatibilità tra la radice metodologica della pianificazione a cui siamo abituati, piuttosto grezza e rigida, con la sempre più raffinata e completa comprensione della struttura del paesaggio che stiamo scoprendo.[…]


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