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venerdì 16 maggio 2008

La riforma della Pubblica Amministrazione

Lettera di Franco Bassanini pubblicata sul Corriere della Sera del 15 maggio 2008.


Sfida per Brunetta: premi legati ai risultati.
Caro Direttore, quasi fermo da alcuni anni, il processo di ammodernamento delle nostre amministrazioni pubbliche sta, forse, per ripartire. Se alle parole seguiranno i fatti, sarà una buona notizia per il Paese. Al netto di alcune esuberanze verbali, che sono nel carattere dell'uomo, il nuovo ministro per la Funzione pubblica, Brunetta, sembra infatti avere le idee chiare: occorre por mano a due rivoluzioni, enunciate nelle leggi, mai attuate in concreto (salvo rare best practices).
La rivoluzione meritocratica: migliorare la produttività, premiando i capaci e i meritevoli, sanzionando e anche licenziando i fannulloni e gli incapaci. La rivoluzione digitale: utilizzare le Ict non solo per mettere online informazioni, moduli e certificati (già avviene), ma per erogare servizi e prestazioni, e perciò per riorganizzare (reingegnerizzare) e semplificare radicalmente la macchina amministrativa.


Per far ciò, non occorrono nuove leggi: basta attuare la riforma degli anni Novanta. Comincio dal fondo. È raro che ministri ambiziosi rinuncino a progettare nuove riforme: così, in attesa di nuove leggi, passano anni prima che arrivi il momento dei fatti (le leggi, da sole, non cambiano la vita dei cittadini, delle imprese, delle stesse Pubbliche Amministrazioni!). Brunetta parte col piede giusto: le norme ci sono, la riforma degli anni Novanta è largamente apprezzata (all'estero). Al più, abbisogna di qualche ritocco.


Avendone avuto una qualche responsabilità (insieme col povero Massimo D'Antona), aggiungo che fu una riforma bipartisan, sostanzialmente condivisa, costruita con l'apporto dell'allora opposizione di centrodestra e delle principali organizzazioni sindacali e imprenditoriali.In materia di Pa le buone riforme non sono né di destra né di sinistra: in Gran Bretagna la cominciò la Thatcher, la continuò Blair. Ci sono già anche le norme per licenziare fannulloni e incapaci. E per incentivare il miglioramento della qualità dei servizi e delle prestazioni.

Dal 1998, la Pubblica Amministrazione ha nei confronti dei suoi dipendenti gli stessi poteri, obblighi e diritti del privato datore di lavoro, compreso il potere di licenziare per giusta causa. E infatti alcuni licenziamenti si fanno; ma si contano sulle dita di una mano. Perché? Perché i sindacati si oppongono? Perché i dirigenti non hanno i poteri necessari? Ma i dirigenti hanno ormai i poteri dei dirigenti privati. E Cgil, Cisl e Uil hanno risposto a Brunetta che non difenderanno i fannulloni e gli incapaci: negli ultimi contratti pubblici sono previsti la sospensione dal lavoro da 11 giorni a sei mesi per gli assenteisti e il licenziamento in tronco per gli assenteisti recidivi.


Cosa occorre allora? Occorre attivare il meccanismo virtuoso previsto dalla riforma per introdurre nel pubblico gli incentivi e le sanzioni che nel privato vengono dal giudizio del mercato. I politici (ministri, sindaci, presidenti di Regioni e province, assessori) devono tradurre i programmi in obiettivi precisi e quantificati per ciascuna amministrazione; devono istituire meccanismi imparziali e affidabili per valutare risultati e performances, e per confrontarli con le valutazioni degli utenti; e su questa base premiare gli incrementi di produttività e sanzionare l'inefficienza.

Immaginiamo che agli ospedali e ai laboratori del Servizio sanitario nazionale sia fissato l'obiettivo di ridurre del 15% all'anno le liste d'attesa, che sia affidato (mediante gara) a una grande società di revisione il compito di verificare i tempi medi di attesa in ciascuna struttura, e che a questa valutazione siano legati gli aumenti di stipendio dei dirigenti e dipendenti di ciascuna struttura. È probabile che allora il capo del personale troverà il coraggio di usare i poteri che ha per sostituire i fannulloni e gli incapaci con giovani diligenti e competenti, che il resto del personale (e i sindacati) staranno dalla sua parte, che gli utenti apprezzeranno.


Ma il ceto politico italiano è finora mancato a questo compito. Considera la definizione di obiettivi precisi e realistici (che è un lavoro, impegnativo e faticoso), uno spreco di tempo, o forse un ostacolo a un uso clientelare della Pa. E gli alti burocrati sono ben contenti di potersi così sottrarre a ogni valutazione. Si può costringerli a farlo? Penso di sì: per esempio, vietando a ministri e sindaci di sostituire i dirigenti, finché non saranno in grado di valutarli imparzialmente; e congelando una quota delle retribuzioni, che per legge deve essere collegata ai risultati, finché i risultati non saranno verificati. Nulla di impossibile né di rivoluzionario: in Australia e Canada lo fanno, e la Commissione Attali l'ha proposto per la Francia.
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