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lunedì 10 settembre 2007

La distanza tra le parole e le cose

Prof. Antonio De Rossi - Facoltà di Architettura, politecnico di Torino


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Viviamo in una strana epoca.
Da un lato, decine e decine di convegni sul tema della sostenibilità ambientale, sulla valorizzazione delle specificità locali; un numero sterminato di libri e ricerche sulla qualità del paesaggio, di articoli sui giornali sul patrimonio storico e ambientale.
Dall’altro lato, la realtà concreta delle cose, delle trasformazioni. Una trasformazione del paesaggio italiano che negli ultimi anni – anche grazie alla particolare congiuntura determinata dal costo del denaro – ha comportato tassi di urbanizzazione del territorio simili e persino superiori in alcune aree a quelli dei micidiali anni ’60 e ’70. Non si tratta soltanto dei casi di Monticchiello in Toscana, del Millennium Park in Piemonte, o delle grandi opere infrastrutturali che stanno interessando il paese. Questi sono solamente gli epifenomeni di qualcosa di più profondo e allargato.


La trasformazione a cui faccio riferimento è minuta, diffusa, pervasiva, strisciante, e proprio per queste sue caratteristiche tende a essere sottovalutata, a essere percepita come un evento naturale, ineluttabile: un nuovo insediamento produttivo lungo la strada di scorrimento, un piccolo Pec residenziale lontano dal centro abitato in zona agricola, l’allargamento delle strade preesistenti per servire le nuove realizzazioni, il piazzale asfaltato in mezzo ai campi realizzato per rispettare gli standard urbanistici sui parcheggi, il nuovo ipermercato alle porte della cittadina, l’intubamento della bealera che disturba le nuove urbanizzazioni.


Un territorio – specialmente quello della cosiddetta città diffusa, della dispersione insediativa – in cui gli elementi strutturanti del paesaggio sedimentatisi nel corso della storia tendono progressivamente a scomparire, a dissolversi, per lasciare posto a una nuova organizzazione dello spazio fatta per “recinti” e per “corridoi” autonomi e specializzati. Un patchwork territoriale che visto dall’alto assomiglia sempre di più alla cartografia con i retini dei piani regolatori.


Questi nuovi territori urbanizzati sono infatti, per la stragrande maggioranza dei casi, dei “paesaggi legali”. Quello che lo sguardo osserva è quello che veramente si voleva ottenere.Questo patchwork territoriale contemporaneo è la concretizzazione fisica di uno scontro di razionalità e di strategie autonome e inconciliabili. Ognuna di esse è insieme limitata e assoluta: limitata perché costruita su semplificazioni e riduzioni, assoluta perché ambisce al controllo esclusivo di una porzione di spazio attraverso l’imposizione di confini.


In questi paesaggi manca infatti la dimensione generale, l’interesse generale. Tolti i grandi interventi di natura infrastrutturale, buona parte di quello che vediamo è infatti l’esito di una serie di decisioni locali, di atti di pianificazione comunali. Non esistendo in Italia una reale pianificazione di area vasta, intercomunale, ogni centro tende a riprodurre le medesime cose: la struttura commerciale, il nuovo Pip, il quartiere a villette nel verde.

Manca un “luogo” reale in cui rapportare le scelte delle singole realtà al tutto, a un quadro di coerenza d’insieme. Anzi, le tendenze legislative degli ultimi tendono a riversare le responsabilità pianificatorie sui singoli comuni, lasciando ai livelli istituzionali superiori una funzione essenzialmente d’indirizzo e sempre meno di controllo. Cosa teoricamente giusta, ma contraddetta dagli esiti osservabili sul terreno.


Provo a raccontare una piccola storia, per cercare di far capire come questo processo di trasformazione del territorio colpisca oramai ogni minima cosa, al di fuori di ogni logica di “senso”. Nel comune dove abito (la cui amministrazione ha recentemente organizzato un convegno sulla valorizzazione del paesaggio) esiste una piccola strada, dall’andamento sinuoso, che attraversa uno degli ultimi brani di paesaggio agricoli superstiti della zona. Questa strada è ogni giorno utilizzata da decine di persone che passeggiano, che fanno jogging, che vanno in bicicletta e persino a cavallo. L’amministrazione ha detto che la strada è troppo stretta. Gli abitanti sono d’accordo. In effetti due auto che si incrociano rischiano di scontrarsi.

Invece di allargare la strada esistente di un metro, l’amministrazione ha deciso di rettificarla e ricostruirla secondo un nuovo tracciato, con relativa opera di esproprio di terreni agricoli. Non solo. Per prevenire le critiche, è stata prevista lungo la nuova strada la creazione di una pista ciclabile: un metro da una parte e un metro dall’altra, che quando scomparirà la segnaletica orizzontale verrà presumibilmente utilizzata come carreggiata automobilistica.


Una pista ciclabile in mezzo ai campi che collega il niente col nulla. Quando provi a dire “Ma non era sufficiente allargare la strada di qualche decina di centimetri? L’andamento a curve del tracciato esistente non consentiva la convivenza tra automobili, ciclisti e pedoni senza la necessità di costruire una pista ciclabile?”, ti accorgi che stai parlando una lingua straniera, incomprensibile da quelli che ti stanno intorno. Nessuno capisce che quella strada esistente è parte integrante del paesaggio agricolo tanto quanto i campi che la circondano. E comprendi che in fondo la rettifica permette alle automobili di guadagnare 10-12 secondi. Lì sta in realtà il punto. E pensare che si tratta di una amministrazione per molti versi più attenta e sensibile di molte altre della zona.


E’ questa modernizzazione acontestuale, questa idea dello sviluppo per lo sviluppo, che sta progressivamente dissolvendo il paesaggio e il territorio che abbiamo ereditato. Una idea di modernizzazione a mio giudizio logora e vecchia, ma che continua a guidare la miriade di piccoli e grandi atti tecnici, fatti fisici, che ogni giorno trasformano il territorio. Il riferimento di questi atti fisici non sono le caratteristiche del luogo che andrà ad accoglierli, ma un ideale tardofunzionalista e tardomodernista oramai frusto e anacronistico.


Oggi però vanno di moda alcune prescrizioni, che nella mente dei decisori dovrebbero servire a diminuire gli impatti delle trasformazioni sul paesaggio. Le nuove residenze a villette dovranno utilizzare – si dice sempre più spesso – “forme e materiali tradizionali”. Ma non sarà questo maquillage di facciata quello che salverà il paesaggio. Anzi, il rischio della “folclorizzazione”, dell’annullamento delle vere specificità dei luoghi, è dietro l’angolo.


E’ sufficiente andare con regolarità in libreria, per accorgersi come ogni anno che passa aumentino esponenzialmente i libri dedicati al paesaggio. Libri che ad esempio raccolgono le vecchie immagini – foto, cartoline – dei luoghi, o fotografie aeree che ci mostrano bei paesaggi apparentemente incontaminati. Sono libri che segnalano una mancanza, e una nostalgia. E’ come se si stesse creando una sorta di “paesaggio parallelo”, cartaceo e virtuale, da opporre a quello della quotidianità. Sono in primis un architetto e un progettista. E ho sempre creduto nella possibilità da parte dell’uomo di modificare positivamente la natura.


Oggi però sono un po’ più pessimista. La trasformazione dei territori e dei paesaggi sta infatti viaggiando a una velocità sempre maggiore. E analogamente, aumenta vertiginosamente la distanza tra le parole e le cose, tanto che sembra impossibile riempire il baratro che si è venuto a creare. Ma forse sta lì, nella possibilità di riuscire a nominare le cose per come esse realmente sono, il primo passaggio da fare per cercare di ribaltare questa situazione apparentemente naturale, ineluttabile.



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