Lo scempio: quel che non volevamo ma ci è stato imposto
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Paesaggio territorio e ambiente
Articolo di BresciaOggi pubblicato il 19 maggio 2008.
E' da poco uscito un libro «I beni culturali e il paesaggio». Il sottotitolo precisa ulteriormente il tema: «Le leggi, la storia, le responsabilità». Lo pubblica Zanichelli e lo hanno scritto due docenti, studiosi della materia, Francesco Bottari e Fabio Pizzicannella. Non entro nell’articolazione dell’ampia ricerca che mi sembra ben strutturata. Ma mi soffermo su alcune pagine che sono in perfetta sintonia con quanto sosteniamo, e con noi altri che amano la natura e i lasciti della storia.
«L'utopia urbanistico-architettonica della “città ideale” - scrivono i due docenti -, realizzata in alcuni borghi rinascimentali concepiti in mirabile armonia col paesaggio circostante, come a Pienza e in tante cittadine italiane, oggi appare una chimera anacronistica, del tutto impraticabile. Il nostro è il tempo degli scempi, ossia della dissoluzione del nesso che stringe in unità il patrimonio ambientale e quello monumentale.
In una triste rassegna dei guasti perpetrati negli ultimi decenni, Vittorio Sgarbi tenta una definizione del termine “scempio”, che riconosce acutamente in “tutto quello che non eravamo e siamo diventati, che non desideravamo ma ci è stato imposto”». Scempio sono le malinconiche brutture edilizie che sfigurano e distruggono sia l’ambiente naturale, sia la nostra civiltà architettonica. Gli intellettuali italiani hanno cominciato a denunciare i pericoli di una modernizzazione irrazionale del Paese fino dagli anni Cinquanta, prendendo posizione sullo sconvolgimento dei paesaggi e dei centri storici. E da subito sono stati denunciati il prevalere e il dilagare degli interessi particolari rispetto a quelli generali del Paese, le crescenti distruzioni di città e campagne, la scarsa applicazione delle leggi.
Ma vane sono state le sollecitazioni per educare l'opinione pubblica «alla cura e al rispetto dell'esistente come unico rimedio alla dilagante corruzione estetica. Solo una cittadinanza formata al gusto e alla bellezza può esigere che anche gli interventi più innovativi siano in armonia con l'antico». Tutte battaglie perse. Come del resto quelle che si stanno combattendo oggi. Non si è ancora affermata, infatti, una cultura della qualità architettonica e urbanistica. Il ritardo accumulato, osservano i due autori, «procura al territorio danni irrimediabili. Così, una miriade di costruzioni e stabilimenti industriali invadono non solo le periferie urbane, ma anche le montagne, le spiagge, le sponde dei laghi, le campagne e i centri rurali. La progressiva caduta della qualità costruttiva manifestatasi tra le due guerre e degenerata con la speculazione avviata negli anni Sessanta», appare irreversibile e irreparabile.
E' da poco uscito un libro «I beni culturali e il paesaggio». Il sottotitolo precisa ulteriormente il tema: «Le leggi, la storia, le responsabilità». Lo pubblica Zanichelli e lo hanno scritto due docenti, studiosi della materia, Francesco Bottari e Fabio Pizzicannella. Non entro nell’articolazione dell’ampia ricerca che mi sembra ben strutturata. Ma mi soffermo su alcune pagine che sono in perfetta sintonia con quanto sosteniamo, e con noi altri che amano la natura e i lasciti della storia.
«L'utopia urbanistico-architettonica della “città ideale” - scrivono i due docenti -, realizzata in alcuni borghi rinascimentali concepiti in mirabile armonia col paesaggio circostante, come a Pienza e in tante cittadine italiane, oggi appare una chimera anacronistica, del tutto impraticabile. Il nostro è il tempo degli scempi, ossia della dissoluzione del nesso che stringe in unità il patrimonio ambientale e quello monumentale.
In una triste rassegna dei guasti perpetrati negli ultimi decenni, Vittorio Sgarbi tenta una definizione del termine “scempio”, che riconosce acutamente in “tutto quello che non eravamo e siamo diventati, che non desideravamo ma ci è stato imposto”». Scempio sono le malinconiche brutture edilizie che sfigurano e distruggono sia l’ambiente naturale, sia la nostra civiltà architettonica. Gli intellettuali italiani hanno cominciato a denunciare i pericoli di una modernizzazione irrazionale del Paese fino dagli anni Cinquanta, prendendo posizione sullo sconvolgimento dei paesaggi e dei centri storici. E da subito sono stati denunciati il prevalere e il dilagare degli interessi particolari rispetto a quelli generali del Paese, le crescenti distruzioni di città e campagne, la scarsa applicazione delle leggi.
Ma vane sono state le sollecitazioni per educare l'opinione pubblica «alla cura e al rispetto dell'esistente come unico rimedio alla dilagante corruzione estetica. Solo una cittadinanza formata al gusto e alla bellezza può esigere che anche gli interventi più innovativi siano in armonia con l'antico». Tutte battaglie perse. Come del resto quelle che si stanno combattendo oggi. Non si è ancora affermata, infatti, una cultura della qualità architettonica e urbanistica. Il ritardo accumulato, osservano i due autori, «procura al territorio danni irrimediabili. Così, una miriade di costruzioni e stabilimenti industriali invadono non solo le periferie urbane, ma anche le montagne, le spiagge, le sponde dei laghi, le campagne e i centri rurali. La progressiva caduta della qualità costruttiva manifestatasi tra le due guerre e degenerata con la speculazione avviata negli anni Sessanta», appare irreversibile e irreparabile.
Del resto quanto sta ancora avvenendo anche da noi - ad esempio gli ecomostri in costruzione in alcune località del Garda, e non solo -, non cessa di stupire e amareggia coloro che amano il territorio e guardano preoccupati al futuro di un comprensorio che sta perdendo sempre più le sue caratteristiche di alta vivibilità.
Concludo con i dati significativi riportati dai due studiosi, i quali osservano che è «difficile immaginare quanto l'Italia abbia mutato il proprio volto in poco più di mezzo secolo»: quasi quadruplicati i vani di abitazione, comprese le seconde e le terze case; 1 milione e 200 mila ettari di terreno (per lo più agricoli) cementificati o asfaltati; litorali sommersi in trent'anni da circa 1 milione e 700 mila case abusive.
Già nel 1957, un decennio dopo la fine della guerra, il giornalista e scrittore Guido Piovene denunciò, nel suo «Viaggio in Italia» l’uragano cementizio che stava avanzando sconvolgendo il Paese. Scrisse, infatti, che poteva bastare un dato: «Su 7.000 chilometri lineari di costa, 2.600, per una fascia più o meno spessa, sono praticamente perduti o perché troppo edificati o perché gravemente inquinati». Una catastrofe che continua e di cui ancora pochi si accorgono.
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