Italo Calvino, «La speculazione edilizia», anno 1957 - pagine 3-5
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Paesaggio territorio e ambiente
Alzare gli occhi dal libro (leggeva sempre, in treno) e ritrovare pezzo per pezzo il paesaggio — il muro, il fico, le canne, la scogliera — le cose viste da sempre di cui soltanto ora, per esserne stato lontano, s’accorgeva; questo era il modo in cui tutte le volte che vi tornava, Quinto riprendeva contatto col suo paese, la Riviera. Però ogni volta c’era qualcosa che gli interrompeva il piacere di quest’esercizio e lo faceva tornare alle righe del libro, un fastidio che non sapeva bene neanche lui. Erano le case: tutti questi nuovi fabbricati che tiravano su, casamenti cittadini di sei otto piani, a biancheggiare massicci come barriere di rincalzo al franante digradare della costa, affacciando più finestre e balconi che potevano verso mare. La febbre del cemento si era impadronita della Riviera: là vedevi il palazzo già abitato, con le cassette dei gerani tutti uguali al balconi, qua il caseggiato appena finito, coi vetri segnati da serpenti di gesso, che attendeva le famigliole lombarde smaniose dei bagni; più in là ancora un castello d’impalcature e, sotto, la betoniera che gira e il cartello dell’agenzia per l’acquisto dei locali. Nelle cittadine in salita, a ripiani, gli edifizi nuovi facevano a chi monta sulle spalle dell’altro, e in mezzo i padroni delle case vecchie allungavano il collo nei soprelevamenti. A ***, la città di Quinto, un tempo circondata da giardini ombrosi d’eucalipti e di magnolie dove tra siepe e siepe vecchi colonnelli inglesi e anziane miss si prestavano edizioni Tauchnitz e annaffiatoi, ora le scavatrici ribaltavano il terreno fatto morbido dalle foglie marcite o granuloso dalle ghiaie dei vialetti, e il piccone diroccava le villette a due piani, e la scure abbatteva in uno scroscio cartaceo i ventagli delle palme Washingtonia, dal cielo dove si sarebbero affacciate le future soleggiate-tricamere-servizi. Quando Quinto saliva alla sua villa, un tempo dominante la distesa dei tetti della città nuova e i bassi quartieri della marina e il porto, più in qua il mucchio di case muffite e lichenose delia città vecchia, tra il versante della collina a ponente dove sopra gli orti s’infittiva l’oliveto, e, a levante, un reame di ville e alberghi verdi come un bosco, sotto il dosso brullo dei campi di garofani scintillanti di serre fino al Capo: ora più nulla, non vedeva che un sovrapporsi geometrico di parallelepipedi e poliedri, spigoli e lati di case, di qua e di là, tetti, finestre, muri ciechi per servitù contigue con solo i finestrini smerigliati dei gabinetti uno sopra l’altro. Sua madre, ogni volta che lui veniva a *** per prima cosa lo faceva salire sul terrazzo, (lui, con la sua nostalgia pigra, distratta e subito disappetente sarebbe ripartito senz’andarci); «Adesso ti faccio vedere la novità», e gli indicava le nuove fabbriche: «Là i Sampieri soprelevano, quello è un palazzo nuovo di certi di Novara, e le monache, anche le monache, ti ricordi il giardino coi bambù che si vedeva là sotto? Ora guarda che scavo, chissà quanti piani vogliono fare con quelle fondamenta! E l’araucaria della villa Van Moen, la più bella della Riviera, adesso l’impresa Baudino ha comprato tutta l’area, una pianta che avrebbe dovuto preoccuparsene il Comune, andata in legna da bruciare; del resto, trapiantarla era impossibile, le radici chissa dove arrivavano. Vieni da questa parte, ora; qui a levante, vista da toglierci non ne avevano più, ma guarda quel nuovo tetto che è spuntato: ebbene, adesso il sole alla mattina arriva qui mezz’ora dopo»......
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